185 giorni alle elezioni statunitensi
31 giorni alle primarie in California

È stata la settimana in cui Donald Trump ha vinto le primarie del Partito Repubblicano, e un anno fa nessuno avrebbe mai pensato di trovarsi a un certo punto a scrivere una simile frase. Dato che la situazione fra i Democratici è piuttosto definita – Clinton non ha ancora ufficialmente vinto, ma a questo punto non può che vincere – potremmo dire che è stata anche la settimana in cui è iniziata la campagna elettorale in vista del voto dell'8 novembre. È una campagna iniziata a marce basse, come vedremo: Trump e Clinton si stanno studiando e oggi stanno cercando soprattutto di sistemare come si deve le cose all'interno dei loro partiti. Ma promette di diventare la più dura campagna da molti anni a questa parte.

Prima di cominciare, una piccola comunicazione di servizio. Come sapete passerò le ultime due settimane di luglio a Cleveland e Philadelphia, a seguire le convention dei Repubblicani e dei Democratici. Ne verranno fuori tantissime storie e cose che varrà la pena spiegare e raccontare. Fosse per me in quelle due settimane scriverei anche una newsletter al giorno, ma sulla base dell'esperienza di questi mesi so che una parte di voi sarebbe molto contenta e un'altra parte penserebbe "Un'altra email da leggere?! Lasciami in pace! Fammi vivere!". Quindi ho pensato di fare così: durante le due settimane delle convention riceverete la solita newsletter del sabato e un'edizione speciale infrasettimanale; e poi registrerò un podcast. Sarà una cosa come questa, probabilmente persino più breve, che faccia sia da punto della situazione sulle convention che da personale diario di viaggio, o qualcosa del genere. Se poi la cosa ci piace, continuiamo fino alle elezioni dell'8 novembre. Gratis. Se c'è qualche azienda interessata a sostenerlo sponsorizzandolo, l'email a cui scrivere è sempre costa@ilpost.it.

Ultima cosa, il solito giro di istruzioni per uccidermi: mercoledì 11 alle 18 sarò a Roma alla Luiss (incontro aperto a tutti, ma se non siete studenti dovete registrarvi qui), venerdì 13 alle 20.30 sarò a Busto Arsizio al circolo ARCI Gagarin.

Ora cominciamo.

È successo
Donald Trump ha stravinto le primarie dei Repubblicani in Indiana, martedì. Nel giro di 24 ore i due sfidanti rimasti in corsa, Ted Cruz e John Kasich, si sono ritirati. Il risultato dell'Indiana, e il modo in cui è maturato, ha fatto diventare politicamente impossibile persino l'ipotesi di una "brokered convention" (quella di una rimonta durante le primarie era ormai da settimane matematicamente impossibile). Poco dopo il capo del Partito Repubblicano, Reince Priebus, ha annunciato che Trump è il "presumptive nominee": il candidato designato. Saranno Trump e il suo staff a definire, tra le altre cose, organizzazione, scaletta e regole della convention di quest'estate a Cleveland. It's over.

Titoli di giornale sulla campagna elettorale dei Repubblicani.

Nelle ore che sono seguite al voto in Indiana, Paul Ryan – lo speaker della Camera, il Repubblicano più alto in grado al Congresso – ha detto che non ha ancora deciso se sostenere Trump alle presidenziali. Gli ex presidenti George H. W. Bush e George W. Bush hanno detto che alle presidenziali non sosterranno nessuno. Jeb Bush ha detto che non intende votare né Clinton né Trump. Mitt Romney e John McCain hanno detto che non andranno nemmeno alla convention di Cleveland. Politici Repubblicani influenti e vicepresidenziabili come Rob Portman, Nikki Haley e persino Rick Scott hanno detto che non sono interessati a fargli da vice. Il governatore del Massachusetts, il Repubblicano Charlie Baker, ha detto che non voterà Trump a novembre. Solo cinque senatori Repubblicani hanno detto che sosterranno Trump, gli altri hanno preso tempo. Un brillante senatore Repubblicano, Ben Sasse del Nebraska (ne abbiamo parlato qualche mese fa, ricordate?), ha auspicato la candidatura da indipendente di un altro Repubblicano. La maggior parte dei grandi finanziatori del partito ha fatto sapere che per il momento non ha intenzione di muoversi, e che se le cose dovessero mettersi male non si farebbero problemi a staccare assegni per Hillary Clinton.

Clinton che ovviamente si sta già sfregando le mani, per esempio diffondendo spot come questo.

Brutale, vero? Tenete conto però che questa del video è la gente che Trump ha sbriciolato alle primarie.

Insomma Trump ha davanti una strada in salita. I sondaggi possono cambiare moltissimo in sei mesi – guardate quelli di sei mesi fa per farvi un'idea – ma dicono che oggi parte da una situazione di gravissimo svantaggio. Ha costruito le sue fortune esclusivamente sul pezzo più incazzato dell'elettorato bianco, facendosi detestare da tutti gli altri, in un paese in cui i bianchi sono sempre di meno e i non bianchi votano sempre più per i Democratici. Se siete appassionati di mappe, conti e grafici, questa settimana ho cercato di spiegare sul Post cosa deve succedere perché Trump vinca le elezioni l'8 novembre. Oggi ha davanti due strade, entrambe complicate: la prima è recuperare terreno tra gli elettori che fin qui ha tenuto a grande distanza, cioè giovani, donne, neri e latinoamericani (in bocca al lupo Donald), la seconda è portare a votare una quantità senza precedenti di elettori bianchi, pescando tra quelli disinteressati alla politica e che non vanno a votare mai, così da compensare i voti persi altrove e portarsi a casa più stati possibile nel Midwest.

Farsi piacere dai latinoamericani: lo stai facendo nel modo sbagliato.

Ah, dimenticavo una cosa: in quanto candidato del Partito Repubblicano, presto Donald Trump comincerà a ricevere ogni mattina i briefing top secret della CIA. Brrr.

Bonus
Se siete abbonati a Netflix, e volete avere un'idea di come funzioni la vita di un candidato alle elezioni presidenziali, come passi le sue giornate, che tipo di stress emotivo e mentale comporti una campagna elettorale del genere e per quanto tempo senza pause, dovete guardare Mitt. È un documentario eccezionale perché l'autore ha avuto accesso esclusivo dappertutto sia durante la campagna del 2008 che durante quella del 2012. Poi ditemi se non è una bomba.



Hillary Clinton a che punto è?
Bernie Sanders ha vinto le primarie in Indiana, e per come sono messe le cose nei sondaggi vincerà anche in diversi degli stati – piccoli, piuttosto ininfluenti – che andranno a votare questo mese. La situazione non cambia: per colmare il distacco che lo separa da Clinton dovrebbe stravincere ovunque – non ha "stravinto" nemmeno in Indiana – e soprattutto alle primarie in California, che assegnano 475 delegati e dove oggi Clinton è dieci punti avanti nei sondaggi. La raccolta fondi di Sanders, che fin qui era andata fortissimo, comincia a riflettere la fine della corsa: in aprile Sanders ha raccolto 26 milioni di dollari, il 40 per cento in meno rispetto a marzo.

Sanders dice che non intende ritirarsi, ha i soldi per farlo ed è perfettamente legittimo: l'argomento per cui tutti gli elettori Democratici dovrebbero avere la possibilità di esprimersi nelle stesse condizioni è sensato, e d'altra parte anche Clinton nel 2008 non si ritirò nonostante a un certo punto fosse evidente che non potesse più rimontare Obama. Ma Sanders sta usando anche altri argomenti per spiegare la sua decisione di non ritirarsi, e uno di questi è un po' sballato

Sanders dice: in tutto ci sono 4.766 tra delegati e superdelegati. La maggioranza assoluta è 2.384. Clinton oggi ha ottenuto 1.701 delegati con le primarie e non può arrivare matematicamente alla maggioranza assoluta escludendo i superdelegati. Quindi ci vuole una "contested convention". Ma così i conti non tornano mai: se si prende in considerazione il numero totale, superdelegati compresi – e questo impongono le regole, che sono chiare per tutti fin dall'inizio – non si capisce perché Clinton per vincere dovrebbe arrivare a quella soglia con i soli delegati eletti con le primarie. È come dire che Clinton per vincere davvero non dovrebbe ottenere il 50 per cento più uno dei voti, come in ogni elezione con due candidati, ma il 65 per cento. I superdelegati contano nel determinare la soglia da raggiungere ma non contano ai fini del raggiungimento della soglia? E perché mai? Peraltro i superdelegati fin qui stanno seguendo – come fanno sempre, peraltro – le indicazioni del voto popolare: Clinton ha ottenuto oltre tre milioni di voti in più di Sanders, ha ottenuto più delegati con le primarie e ha vinto in più stati. Anche se – ragionando per assurdo, visto che non si possono cambiare le regole in corsa solo perché non piacciono a Sanders – i superdelegati di ogni stato dovessero essere assegnati in blocco al vincitore delle primarie di quello stato, il vantaggio di Clinton resterebbe intatto.

Sanders ha tutto il diritto di restare in corsa fino alla fine e secondo me fa anche bene: la sua candidatura ha cambiato questa gara. Ma diversi dirigenti e opinionisti di area Democratica questa settimana si sono detti preoccupati dal fatto che mentre si va profilando uno scontro apocalittico tra Clinton e Trump, Sanders passi le giornate cercando di delegittimare la vittoria di Clinton, peraltro con argomenti del genere. Più che i risultati delle primarie di questo mese, questa sarà la cosa più interessante da seguire nel Partito Democratico nel breve periodo: Clinton e Sanders inizieranno quel percorso di "riconciliazione" che avviene alla fine di ogni elezione primaria, per unire il partito in vista delle elezioni di novembre, o continueranno a beccarsi?

27 giugno 2008. Barack Obama e Hillary Clinton nel loro primo comizio insieme dopo la fine delle primarie: scelsero un posto che si chiama Unity, in New Hampshire, non a caso.

Correzioni
Nella scorsa newsletter ho scritto che le primarie del Partito Repubblicano in California assegneranno i delegati con sistema maggioritario, ma sono stato impreciso: il grosso dei delegati vengono assegnati con un maggioritario su base di collegio, quindi in condizioni normali i candidati avrebbero potuto spartirsi i delegati (stando così le cose, prenderà tutto Trump). Inoltre, nell'elencare i potenziali vice di Hillary Clinton, ho messo per errore Sherrod Brown nel calderone dei senatori bianchi e moderati. Svista da penna rossa, come ho raccontato quel pomeriggio stesso a Mantova: Brown è uno dei senatori più di sinistra del Congresso (e a me sembra anche sempre più vicepresidenziabile).

Cose da leggere
Did Donald Trump Just Hand the Senate to Elizabeth Warren?, di David S. Bernstein su Politico
– Let’s all laugh at the sexist pig: Hillary’s negative campaign against Donald Trump will be easy — and true, di Amanda Marcotte su Salon
– Come deve vestirsi una donna che vuol fare il presidente, sul Post
– The Quiet American, di Franklin Foer su Slate (sul nuovo campaign manager di Trump, che si è fatto una carriera rendendo presentabili i tiranni di mezzo mondo)
– Barack Obama and Bryan Cranston on the Roles of a Lifetime, di Philip Galanes sul New York Times (non c'entra con la campagna elettorale, ma è comunque un'intervista bellissima)

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Francesco Costa · Quartiere Isola · Milan, VA 20159 · Italy