102 giorni alle elezioni statunitensi
–59 giorni al primo dibattito televisivo tra Clinton e Trump

Ciao da Philadelphia, dove sono le quattro del mattino passate e poche ore fa si è conclusa la convention del Partito Democratico che ha nominato formalmente Hillary Clinton come sua candidata: è la prima volta nella storia che un grande partito americano sceglie una donna come candidata alle elezioni presidenziali. È stata una convention molto diversa da quella di Cleveland, più ricca, più solida e soprattutto con un impianto politico più interessante. Giorno per giorno, è andata così.

Palloncini e coriandoli d'ordinanza.

25 luglio
La prima giornata della convention dei Democratici è sembrata scritta da uno sceneggiatore di serie tv. Come vi raccontavo la settimana scorsa, le convention da circa quarant'anni sono soprattutto dei grandi show che servono a promuovere il candidato del partito, pianificati in ogni minimo dettaglio. Ma lunedì molte cose sono andate come non erano state pensate.

Per esempio: Debbie Wasserman-Schultz, la presidente del partito che avrebbe dovuto dare inizio ai lavori, non c'era. Si era appena dimessa, dopo la diffusione da parte di Wikileaks di alcune email rubate in un attacco hacker riconducibile al governo russo (e la cui diffusione a ridosso della convention non è stata casuale). Alcune email piuttosto sgradevoli mostrano un atteggiamento decisamente pro-Clinton di diversi funzionari del partito, ma nessuna manipolazione del voto delle primarie (anzi, il contrario). Il posto di Wasserman-Schultz è stato preso pro-tempore da Donna Brazile, stimata funzionaria del partito di un'altra epoca (era stata il capo della campagna elettorale di Al Gore nel 2000), mentre la convention è stata presieduta dalla sindaca di Baltimora, Stephanie Rawlings-Blake. Che è diventata in breve tempo un potenziale personaggio nazionale.

Si era dimenticata la martellata, è tornata di corsa sul palco.

La prima cosa che ha fatto Donna Brazile è stata un comunicato di "profonde e sincere scuse" per Bernie Sanders, i suoi sostenitori e il partito intero. Scuse che Sanders ha accettato, così come ha accettato con soddisfazione – le chiedeva da tempo – le dimissioni di Debbie Wasserman-Schultz. Ma questa storia ha esasperato ulteriormente un gruppo minoritario ma sostanzioso di delegati e sostenitori di Sanders presenti a Philadelphia, che hanno partecipato a una manifestazione ambientalista del mattino urlando slogan come "In galera" o "Hillary in prigione" – gli stessi usati a Cleveland dai Repubblicani di Trump – e fin dall'inizio dei lavori della convention hanno fischiato e fatto buuu tutte le volte che veniva pronunciato il nome di Hillary Clinton.

Persino durante la preghiera (dal minuto 2:10).

Dentro l'arena c'era una certa agitazione, Sanders ha chiesto ai suoi di darsi una calmata ma inutilmente, e d'altra parte solo poche ore prima avevano fischiato anche lui. Tra giornalisti si diceva: solo i discorsi di stasera di Elizabeth Warren, popolare senatrice di sinistra, e dello stesso Bernie Sanders possono raddrizzare la situazione, se no qui è un disastro. D'altra parte se le convention sono uno spot promozionale per il candidato, una convention in cui il nome del candidato provoca fischi dal suo stesso partito – per quattro giorni consecutivi, in prima serata su tutte le tv – è una catastrofe. Ci eravamo dimenticati di Michelle Obama, che è arrivata e ha fatto il miglior discorso della sua carriera e uno dei migliori di sempre delle convention americane.

Questa è la parte che dovete vedere.

Qualcuno ha continuato a fare buu ogni tanto, dopo, ma senza la stessa frequenza e intensità di prima. I sostenitori di Hillary, invece, erano esaltati e contenti: e ogni buuu veniva sommerso dai loro cori. Alla fine della serata la sensazione in giro era: i Democratici hanno ripreso la convention per i capelli.

Approfitto per rispondere qui a una domanda che ho ricevuto molto dopo questo discorso: e se a un certo punto si candidasse proprio Michelle? È possibile, ovviamente, ma implausibile. Intanto non si passa da first lady alla presidenza: Hillary in mezzo si è fatta otto anni da senatrice in uno degli stati più importanti d'America. Ma in generale Michelle Obama ha sempre detto – e dimostrato – di non voler avere a che fare con la politica e non vedere l'ora di lasciare Washington; inoltre, al contrario di Hillary Clinton, è stata una first lady che non ha voluto avere nessun ruolo nelle questioni politiche del marito, campagne elettorali escluse. Magari cambierà idea, ma oggi sembra proprio non averne alcuna intenzione. 

Bonus
Lunedì 28 ho registrato la quinta puntata del podcast sulle elezioni americane: si parla di questa prima giornata, del dietro le quinte delle convention e della città di Philadelphia. La trovate qui su iTunes e qui su Spreaker.

26 luglio
È stato il giorno dei Clinton. Le delegazioni degli stati hanno votato, una per una, e Hillary è stata scelta ufficialmente come candidata del partito: è stato Bernie Sanders a prendere la parola alla fine del voto e proporre un voto per acclamazione. Il video del momento storico, girato da me dentro il Wells Fargo Center:



Momento fondamentale per sensibiloni, invece: il fratello di Bernie Sanders, Larry, che prende la parola commosso, vota per suo fratello e dice i nomi dei loro genitori.

«I want to read before this convention the names of our parents, Eli Sanders and Dorothy Glassberg Sanders. They did not have easy lives and they died young. They would be immensely proud of their son and his accomplishments»

Poi è arrivato Bill Clinton. Il Washington Post l'ha messa così: «vedere Bill Clinton pronunciare un discorso vuol dire vedere qualcuno nato per fare qualcosa mentre fa esattamente quella cosa». È stato un gran discorso, ovviamente è andato anche molto a braccio, ha ripresentato sua moglie agli americani e ha tirato giù efficacemente Donald Trump.
«Vedete, i conti non tornano. Come fanno a tornare i conti tra le cose che vi ho raccontato e quelle che avete sentito alla convention dei Repubblicani? Qual è la differenza tra queste e quelle? Come facciamo a far tornare i conti tra queste e quelle? Non si può. Perché alcune sono vere, e altre sono inventate. Voi dovete semplicemente decidere chi ha detto quelle vere e chi quelle inventate. La Hillary vera è la più grande produttrice di cambiamento che io abbia incontrato in tutta la mia vita. La buona notizia è che voi oggi avete candidato quella vera»
Momento per nerd della politica americana, infine: Howard Dean ha rifatto – scherzando – il famigerato "Dean's scream". I lettori anziani della newsletter sanno di che si tratta, ne avevamo parlato a febbraio; gli altri possono cliccare qui.



Il gruppetto più agitato dei sostenitori di Sanders ha sospeso le contestazioni durante i lavori ma ha fatto casino fuori: ha occupato la sala stampa e poi ha organizzato una piccola manifestazione. È stato un po' surreale, però: alcuni si sono imbavagliati, altri si sono scritti addosso la parola "silenced", altri ancora dicevano di manifestare perché i media non facevano sentire la loro voce, ma attorno alla protesta c'erano decisamente più giornalisti che manifestanti. 

27 luglio
Nel frattempo è andata avanti la faccenda dell'attacco hacker contro il Partito Democratico, anche perché di mattina Trump in un'intervista ha invitato il governo russo ad attaccare ancora Hillary Clinton per recuperare le 30.000 email che ha cancellato dal suo server. E mentre crescevano le domande sui legami finanziari di Donald Trump con la Russia e il giro di imprenditori vicini a Vladimir Putin, il capo della campagna elettorale di Trump ha confermato che il suo candidato sarà il primo in quarant'anni a non diffondere le sue dichiarazioni dei redditi. Oltre a essere preoccupante di suo, la frase di Trump sugli hacker è un errore politico da dilettante: quella che era una vicenda imbarazzante per i Democratici, che distraeva elettori e media dalla convention, è diventata una vicenda imbarazzante per Trump.

Per il resto, se la prima giornata della convention era servita a "coprirsi a sinistra", diciamo, e la seconda a ripresentare Hillary Clinton agli americani, la terza è stata usata per cercare di demolire Donald Trump. È stato notevole il durissimo discorso di Michael Bloomberg, ex sindaco di New York, ex Repubblicano e oggi indipendente, che ha fatto un endorsement non scontato per Clinton, ma i discorsi più attesi della serata erano quelli di Tim Kaine, candidato alla vicepresidenza, Joe Biden e Barack Obama.

In sintesi, quindi: 

– Tim Kaine: bravo, ha fatto il suo.

– Joe Biden: formidabile. Ma veramente formidabile. Ha raccontato la sua storia incredibile, ha espresso in modo originale e semplice perché votare per Hillary Clinton e ha attaccato in modo altrettanto esemplare Donald Trump. Ha scritto il Washington Post: «Consapevole che si trattava per lui di una specie di canto del cigno, almeno in una grande occasione come questa, ha fatto una potente difesa della classe media e dell'abilità unica degli americani di superare le difficoltà più complesse. È stato la quintessenza di Biden, eccezionale: un discorso col quale solo quello di Michelle Obama può gareggiare».

– Barack Obama: non sarei onesto con voi se fingessi di poter giudicare obiettivamente un discorso di Barack Obama che ho ascoltato a venti metri da Barack Obama. Ma ci provo. È stato un buon discorso, ovviamente, potenzialmente molto efficace visti i suoi alti livelli di popolarità: ed è stato anche l'inizio di qualcosa che si è visto con prepotenza alla convention il giorno successivo, cioè il tentativo esplicito di convincere gli elettori Repubblicani più moderati a votare per Hillary Clinton e impostare questa campagna elettorale non come una lotta tra Clinton e Trump ma come una lotta tra l'America e Trump. È stato anche un discorso di saluto: e questo ha commosso tutti, me compreso.
«Più volte, nel corso degli anni, mi avete rimesso in piedi. Spero, ogni tanto, di aver rimesso io in piedi voi. Stasera vi chiedo di fare per Hillary Clinton quello che avete fatto per me. Vi chiedo di trascinarla come avete trascinato me. Perché siete gli stessi di dodici anni fa, quando parlavo di speranza. Siete voi che avete alimentato la mia fiducia nel futuro, anche davanti alle difficoltà, anche quando la strada è lunga. Speranza davanti alle difficoltà, speranza davanti alle incertezze: l’audacia della speranza! America, in questi otto anni hai indicato la speranza. Adesso sono pronto a passare il testimone e fare la mia parte da privato cittadino. Quest’anno, in questa elezione, vi chiedo di unirvi a me e respingere il cinismo e la paura, di fare appello alle cose migliori di noi, eleggere Hillary Clinton alla presidenza degli Stati Uniti e mostrare al mondo che crediamo ancora nella promessa di questo grande paese. Grazie per questo incredibile viaggio»


28 luglio

Il gran finale. Come vi dicevo prima, la giornata è stata interamente dedicata a trasformare questa elezione in un referendum su Donald Trump. A un certo punto l’intero palazzetto si è riempito di bandiere americane e cartelli con scritto “USA”, mentre i delegati cantavano “USA! USA!”, una scena da convention dei Repubblicani (e infatti moltissimi opinionisti e politici conservatori hanno scritto su Twitter cose tipo: con Trump ci siamo fatti rubare anche questa). La cosa interessante è che questo tentativo è stato portato avanti senza spostare la linea politica a destra – durante la convention il Partito Democratico ha adottato il programma più di sinistra degli ultimi decenni, anche grazie ai delegati di Bernie Sanders – ma rubando agli avversari il registro del patriottismo e dell’ottimismo.

Innanzitutto hanno parlato una serie di pezzi grossi del partito accomunati da una caratteristica comune: avere dimestichezza nel rivolgersi con efficacia al segmento di elettori con cui Hillary Clinton sta facendo più fatica – i maschi bianchi con un basso titolo di studio – e agli elettori degli stati del Midwest, che sono per Trump un punto di forza nonché l’unica strada politicamente plausibile per mettere insieme i 270 grandi elettori necessari l’8 novembre per vincere le elezioni. Hanno parlato anche un ex funzionario di Reagan e un famoso ex generale che oggi guida la guerra contro l'ISIS.

Nel pomeriggio c'è stato un momento memorabile: il discorso dei genitori di Humayun Khan, un soldato americano e musulmano morto in Iraq gettandosi sopra una granata per salvare i suoi compagni. Ricordate che Trump propone di vietare del tutto l'ingresso nel paese ai musulmani, americani compresi; a Philadelphia invece hanno parlato i genitori di un soldato americano e musulmano morto in modo eroico. Mentre tutto il palazzetto ascoltava in silenzio, suo padre Khizr Khan ha detto: «Siamo onorati di essere qui in quanto genitori del capitano Humayun Khan, e in quanto americani musulmani patriottici e leali al nostro paese. Come molti immigrati, siamo arrivati qui a mani vuote. Credevamo nella democrazia americana: credevamo che lavorando duro, grazie alla bontà di questo paese, avremmo potuto condividere e partecipare alle sue fortune. Nostro figlio sognava di diventare un avvocato militare. Ma ha messo quei sogni da parte il giorno che si è sacrificato per salvare i suoi compagni. Hillary Clinton ha definito mio figlio “il meglio che abbia prodotto l’America”. Fosse stato per Donald Trump, non ci sarebbe nemmeno arrivato in America». Poi ha tirato fuori dalla tasca una copia della Costituzione. Guardatelo.



Il discorso di Hillary Clinton, che ha chiuso la serata e la convention, ha avuto una prima parte un po' fiacca ma poi si è risollevato molto. Clinton ha spiegato perché gli americani dovrebbero votare per lei e non per Donald Trump, ha affrontato direttamente i suoi problemi di popolarità e immagine, e le accuse di essere fredda o secchiona o da troppo tempo vicina al potere, ha elencato una serie di proposte concrete – accusando Trump di non avere fatto altrettanto – e poi di nuovo ha descritto questa campagna elettorale come una scelta cruciale dell'identità del paese, che prescinde dall'affiliazione di partito degli elettori.



Che cosa ho visto a Philadelphia
Come vi avevo già scritto una settimana fa su Cleveland: qui finisce la cronaca e cominciano le mie impressioni, e quindi prendete quanto segue con tutte le cautele del caso. Se le convention sono un indicatore affidabile dell'umore di un partito, della sua unità e del suo stato di salute, quello che ho visto a Philadelphia dice che il Partito Democratico sta molto bene e funziona. Sì, c'è stato il guaio delle email, e sì, qualche sostenitore di Sanders ha fatto casino, ma a Philadelphia ho visto una macchina da guerra.

Ho visto innanzitutto un partito che assomiglia all'America: la platea dei delegati era piena di donne e persone dalle etnie più diverse, sul palco hanno parlato persone di tutte le religioni, persone disabili, poliziotti e attivisti contro le violenze della polizia, pacifisti e generali, liberal e moderati, e senza avere mai l'impressione di assistere a un'accozzaglia di cose troppo diverse per stare insieme. Questo è stato reso possibile un po' dalla natura stessa dei partiti politici americani, meno monolitici di quelli europei, ma soprattutto da Donald Trump, che ha lasciato uno spazio politico vuoto enorme che i Democratici stanno tentando di riempire.

Un esempio semplice? A un certo punto è stato trasmesso un video che mostrava che cosa pensano di Trump – cose terribili – alcuni importanti politici Repubblicani, per esempio Mitt Romney o John McCain. È successo insomma che gli ultimi due candidati dei Repubblicani alle elezioni presidenziali non solo non sono andati alla convention dei Repubblicani, ma sono stati "usati" dai Democratici per attaccare il candidato dei Repubblicani. Ho visto un partito in grado di impostare un'intera convention sugli slogan "stronger together" e "love trumps hate", e allo stesso tempo credibilmente applaudire un generale e cantare i cori "USA! USA!", prendersi l'ottimismo e il patriottismo che storicamente appartengono ai loro avversari ed esaltare i valori storici e persino tradizionali dell'America, nel tentativo di disorientare i conservatori più ragionevoli e sbilanciarli.

Ho visto un partito che è in grado di schierare una quantità di politici popolari e di talento imparagonabile a quella dei Repubblicani. Non ho visto bugie clamorose, come quelle che avevo sentito a Cleveland: anzi, per essere un grande circo promozionale, non ho sentito nemmeno una quantità eccessiva di sparate demagogiche. Il tasso di aggressività verbale degli oratori e del pubblico è stato vicino allo zero. A parte certi sostenitori di Sanders – che urlavano lo slogan dei Repubblicani, "Lock her up", contro Hillary Clinton – nessuno ha detto cose violente contro Trump, che pure gliene ha dette e ne dice di tutti i colori. Ma anche i contestatori non erano granché rappresentativi: le discussioni fatte con alcuni delegati di Sanders, e i sondaggi più generali sul suo elettorato, dicono che in grandissima maggioranza hanno già deciso di votare Clinton a novembre.

Ho visto una candidata e un partito tentare di andare oltre i loro limiti, in un modo organizzato e pianificato in modo così quadrato, deciso, scaltro e coerente da suscitare rispetto e ammirazione. Che funzioni, ovviamente, non è affatto detto. Per quel che vale – ma un po' vale – le serate della convention dei Democratici in tv sono state parecchio più viste di quelle della convention dei Repubblicani. I sondaggi bisognerà guardarli tra una settimana, ora è ancora presto: quel che è certo è che – a meno di grandi scandali – Hillary Clinton non avrà più un'occasione come questa per ricostruire la sua immagine e consolidare un vantaggio su Donald Trump. Se questo non accadrà, ci sarà da cominciare a preoccuparsi sul serio. Ma devo dirvi – consapevole che potrei subire l'umiliazione di una smentita, e che nessuno mi obbliga a scriverlo sapendo che potrei pentirmene – che non vedo come possa accadere.

Quindi
Noi ci sentiamo domenica con una newsletter, per un po' di altri aggiornamenti e qualche valutazione a freddo; poi riprenderanno le normali uscite del sabato. Io vi ringrazio di nuovo, per l'ultima volta, per avermi dato modo di vivere queste due settimane eccezionali e che non dimenticherò. Spero di non avervi sfinito con tutte le cose che ho pubblicato sul Post, e su Facebook, e su Twitter, e su Instagram, oltre che sulla newsletter e sul podcast, e spero che il racconto di queste giornate sia stato all'altezza di quello che vi aspettavate. A presto.
 
Questa newsletter vi arriva grazie al contributo di Otto e della Fondazione De Gasperi.

Cose da leggere
Why Putin hates Hillary, di Michael Crowley e Julia Ioffe su Politico
Can Latinos Swing Arizona?, di Héctor Tobar sul New Yorker
Trump’s Big Data Gamble, di L. Gordon Crovitz sul Wall Street Journal

Hai una domanda?
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Francesco Costa · Quartiere Isola · Milan, VA 20159 · Italy