109 giorni alle elezioni statunitensi
3 giorni all'inizio della convention di Philadelphia

Scrivo questa newsletter da Cleveland, Ohio, mentre sono le due del mattino passate e si è conclusa da poche ore la convention del Partito Repubblicano statunitense. La notizia fondamentale della settimana era scontata: Donald Trump è stato nominato ufficialmente candidato del partito alle elezioni dell'8 novembre. Ma questa è stata l'unica cosa che è andata secondo i piani, o quasi.
 
Prima di tutto, una domanda che potrebbe apparire scontata ma non lo è. Perché le convention sono importanti? Alla fine della fiera da circa quarant'anni le convention politiche statunitensi ratificano decisioni prese durante le primarie, e sono quindi di fatto solo un lungo show di propaganda. Contano davvero qualcosa? Questa domanda ha due risposte, una statistica e una politica. La risposta statistica: se si osserva l'evoluzione storica dei dati, la situazione nei sondaggi successiva alle convention assomiglia molto di più al risultato finale delle elezioni rispetto alla situazione precedente alle convention. Se le convention non sono un momento decisivo, di sicuro sono uno spartiacque. La risposta politica: le convention mostrano che aria tira nel partito, che sintonia c'è tra militanti e dirigenti, che atmosfera si respira: e queste cose incidono sulle elezioni, e suggeriscono anche da che parte andrà il futuro di quel partito dopo le elezioni presidenziali. Prendete il famoso discorso di Ronald Reagan alla convention dei Repubblicani nel 1976 – aveva appena perso la candidatura, tutti capirono che il futuro era suo – oppure quello di Barack Obama alla convention dei Democratici del 2004. Ho raccontato queste e altre storie in un articolo che trovate sul Post, intitolato appunto "Perché seguire le convention americane".

Tenendo presente tutto questo, ecco com'è andata ai Repubblicani a Cleveland.

Non è una convention senza palloncini e coriandoli.

18 luglio
Alle convention la prima giornata di solito è interlocutoria, ma stavolta si è cominciato a ballare da subito. Nel pomeriggio, all'apertura dei lavori, nove stati hanno presentato una mozione per “liberare” i delegati: cioè per permettere a tutti i delegati eletti con le primarie di votare secondo coscienza e non essere costretti a votare il vincitore delle primarie nel loro stato, come prevedono oggi le regole. Una mozione del genere avrebbe riaperto la partita: ogni voto sarebbe stato di nuovo in ballo, i delegati sarebbero stati liberi di votare chi volevano (poi Trump probabilmente avrebbe vinto comunque, la maggior parte dei delegati non aveva voglia di fare casino). Nel caos generale seguito alla proposta, il dirigente del partito che presiedeva l’assemblea ha indetto un voto a voce e ha liquidato velocemente la mozione dandola per bocciata. I delegati anti-Trump non l'hanno presa bene, come mostra il video qui sotto.



Il discorso di Melania Trump, previsto per la sera, avrebbe dovuto salvare la giornata: ed era stato effettivamente un buon discorso, rispetto alle aspettative, l'unico della giornata che invece di concentrarsi su quanto l'America sia in declino e come Hillary Clinton debba andare in galera aveva cercato di tracciare un ritratto positivo del candidato del Partito Repubblicano. Dopo circa un'ora dalla fine dei lavori, però, è venuto fuori che intere frasi del discorso di Melania Trump erano state copiate integralmente dal discorso rivolto da Michelle Obama alla convention dei Democratici del 2008. Un guaio innocuo dal punto di vista politico – non si perdono voti per queste cose – ma preoccupante per il livello di superficialità che può rendere possibile una cosa del genere in una campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti. A ulteriore dimostrazione dell'improvvisazione della candidatura di Donald Trump, il suo comitato ha impiegato 38 ore – 38 ore passate a negare l'evidenza in modo contraddittorio e ridicolo – prima di ammettere il plagio e chiedere scusa per l'errore.

Bonus
La sera del 18 luglio ho registrato la quarta puntata del podcast, la potete ascoltare qui (oppure qui, fuori da iTunes): sulle manifestazioni contro Trump, il casino del pomeriggio alla convention e l'aria che tira a Cleveland.

19 luglio
Nel pomeriggio ci sono state le spettacolari operazioni di voto: uno per uno, i rappresentanti degli stati annunciano come votano i loro delegati sulla base dei risultati delle primarie. Per capire di cosa parliamo: questa è stata la dichiarazione di voto della delegazione della California.



Il voto è andato come previsto: un nuovo tentativo di liberare i delegati è stato respinto senza difficoltà, Trump ha ottenuto la maggioranza assoluta dei delegati ed è stato formalmente nominato candidato del partito. Rispetto alla prima sgangherata giornata di lavori, la seconda giornata è stata più ordinata. I discorsi più apprezzati dalla platea sono stati quello di Donald Trump Jr., figlio primogenito di Trump, e quello di Chris Christie, governatore del New Jersey. Il discorso di Christie è stato una buona sintesi dell'umore dei delegati nei confronti di Hillary Clinton. Christie, che ha un passato da pubblico ministero, ha simulato una messa in stato d’accusa per Hillary Clinton, chiedendo di tanto in tanto ai delegati di esprimersi: «guilty or not guilty?”». Tutti puntualmente urlavano «Guilty!» e intonavano il coro «Lock her up! Lock her up!» («in galera!»), una cosa forse mai vista a una convention di un grande partito politico statunitense. Il coro "Lock her up!" è tornato nelle successive sere alla convention, a volte con l'imbarazzo degli oratori. Le magliette con scritto “Hillary for Prison” sono state tra i gadget più venduti nei dintorni della Quicken Loans Arena, il palazzetto dello sport che ha ospitato la convention.

20 luglio
La giornata più intensa e con il più grande colpo di scena. La cosa più significativa doveva essere il discorso di Mike Pence, governatore uscente dell’Indiana e candidato alla vicepresidenza, invece ha tenuto banco uno scambio di sgradevolezze con pochi precedenti tra Donald Trump e Ted Cruz, uno dei più popolari politici Repubblicani e il più importante dei suoi sfidanti sconfitti alle primarie. 

Ted Cruz era rimasto uno dei pochi dirigenti del partito a non aver ancora annunciato il suo sostegno ufficiale per Trump. Il fatto però che il suo discorso fosse stato programmato – dal partito e da Trump – mercoledì in prima serata, un momento televisivamente molto importante, lasciava pensare che Cruz avesse intenzione di approfittare di quell’occasione per annunciare in grande stile il suo sostegno, e questo era quello che si aspettavano i delegati in platea. Anche per questo, al suo ingresso sul palco Cruz è stato accolto dal più lungo e caloroso applauso ascoltato fin qui alla convention di Cleveland: il suo endorsement a Trump avrebbe rappresentato l’avvenuta riunificazione di un partito che si era molto diviso durante le primarie. Cruz ha insistito sull’importanza di far prevalere «principi conservatori» alle elezioni di novembre, con una retorica di intensità crescente, ma quando è arrivato alla parte finale del discorso ha invitato i Repubblicani a «votare secondo coscienza», una formula che tra i Repubblicani è ormai una specie di traduzione di «vota i candidati Repubblicani al Congresso, non votare Hillary Clinton, lascia perdere Trump».

A quel punto lo stato d’animo dei delegati è cambiato completamente, e gli applausi della prima parte del discorso si sono trasformati in fischi, buu molto forti e cori “We want Trump”. Mostrando un istinto davvero notevole, Trump ha avuto la freddezza di decidere in un istante la cosa migliore da fare per mostrare chi comanda: mentre Cruz si apprestava a concludere il discorso, infatti, Trump a sorpresa è spuntato sulle tribune del palazzetto dello sport, attirando immediatamente gli applausi dei delegati e le attenzioni di tutti i giornalisti e i fotografi in sala. Praticamente si sono girati tutti dall’altra parte salvo quelli impegnati a contestare Cruz, che ha concluso il suo discorso tra i fischi e senza neanche un applauso.



Giornalisti ed esperti di politica americana hanno raccontato di non aver mai visto accadere niente di simile a una convention di partito in decenni. Cruz è andato via in fretta dal palco e con sua moglie ha preso un ascensore per lasciare il palazzetto, mentre alcuni delegati cercavano di raggiungerlo per insultarlo e alcuni dirigenti locali del partito urlavano dandogli del «traditore». Poco dopo, Trump ha scritto su Twitter: “Wow, Ted Cruz è stato fischiato sul palco perché non ha onorato la promessa di sostenere chi avrebbe vinto! Ho letto il suo discorso due ore prima ma l’ho lasciato parlare comunque. Non importa”. È vero che Trump aveva letto il discorso di Cruz prima che lo pronunciasse, per il semplice fatto che l'avevo letto anche io: i testi dei discorsi vengono inviati ai giornalisti circa un'ora prima che vengano pronunciati, così chi deve scrivere in fretta può cominciare a buttare giù qualcosa, quindi figuriamoci se non l'aveva letto Trump. Perché lo ha fatto parlare? Perché estromettere dalla convention il secondo candidato più votato alle primarie sarebbe stato un colpo di mano autoritario persino per lui.

Prime pagine del giorno dopo. Non i titoli che un candidato spera di leggere l'ultimo giorno della convention.

Perché Cruz lo ha fatto? Per due motivi, secondo la gran parte degli osservatori statunitensi. La prima sono le cicatrici lasciate da una campagna elettorale durissima in cui, tra le altre cose, Trump ha insultato la moglie di Cruz – da lui soprannominato “Ted il bugiardo” – e ha accusato il padre di Cruz di essere coinvolto nell’omicidio di Kennedy, mentre Cruz ha definito Trump «bugiardo patologico», «amorale» e «donnaiolo seriale». La seconda è di fatto la scommessa politica da parte di Cruz che Trump perderà le elezioni, cosa che dopo il voto farebbe di lui l’unico o quasi leader Repubblicano a non essersi piegato a un candidato così fragile e controverso.

Questa storia ha oscurato il discorso di Mike Pence, che in teoria sarebbe dovuto essere l’evento della serata. È stato un discorso privo di particolari guizzi retorici ma solido: da Pence ci si aspettava un classico e ortodosso discorso da politico molto conservatore, che rassicurasse gli elettori che non hanno votato Trump alle primarie e i finanziatori del partito, e Pence ha fatto quel discorso lì.

21 luglio
L'ultimo giorno della convention, quello del discorso di Trump. Ci sono state due conferme. La prima è l'improvvisazione dilettantesca del comitato elettorale di Trump. Il discorso del candidato è arrivato online tre ore prima che Trump salisse sul palco, spedito ai giornalisti di tutte le redazioni americane da un importante comitato pro-Hillary. Il capo della campagna di Trump, Paul Manafort, prima del discorso ha detto in tv che le donne voteranno Trump perché «non possono più permettersi il loro tenore di vita, gli stipendi dei loro mariti non bastano più per pagare le bollette».

La seconda conferma è che gli elettori a cui Trump ha deciso di rivolgersi sono quelli che pensano che l'America sia un paese in gravissimo declino e completamente allo sbando. Nel suo discorso finale – un discorso molto ben costruito, con almeno un paio di passaggi particolarmente efficaci – si è descritto più volte come un candidato «legge e ordine», ha criticato la globalizzazione e il liberismo, ha promesso di proteggere gli americani dagli immigrati, dal terrorismo, dal crimine, dalle tasse. Trump ha detto di voler rappresentare le persone ai margini della società, le «vittime di un sistema truccato», ha promesso di risolvere tutti i problemi del paese e di farlo in fretta, ma non ha mai nemmeno accennato al come.

Una nuova definizione di matto: così matto che anche secondo Donald Trump devi darti una calmata. Si parla di Hillary, i delegati urlano "in galera!", lui risponde: "battiamola a novembre".

Che cosa ho visto a Cleveland
Qui finisce la cronaca e cominciano le mie impressioni, e quindi prendete quanto segue con tutte le cautele del caso. Se le convention sono un indicatore affidabile dell'umore di un partito, della sua unità e del suo stato di salute, quello che ho visto a Cleveland dice che il Partito Repubblicano non sta bene e il suo candidato, Donald Trump, non ha messo in piedi un comitato elettorale che funziona. Ho visto un partito molto diviso, e non solo per quella storia di Cruz, comunque eclatante: sono stati fischiati anche i leader dei Repubblicani al Congresso, che non sono affatto moderati; e sono stati fischiati non da una folla di americani criptogrillini ma dai delegati del partito, dai militanti di base. Ho visto molti posti vuoti sugli spalti, cosa che i giornalisti americani qui a Cleveland, quelli che di convention ne hanno fatte otto o dieci, dicono di non aver mai visto prima.

Ho visto un odio nei confronti degli avversari che non ricordo di aver visto in nessuna campagna elettorale statunitense del recente passato: neanche quando i Democratici sfidarono un presidente che detestavano come George W. Bush. A volte istigati dagli oratori sul palco, a volte spontaneamente, i delegati hanno urlato più volte «in galera!», senza che nessuno dicesse nulla; un consulente di Trump ha detto che Hillary Clinton andrebbe «messa davanti a un plotone di esecuzione e uccisa», e l'unico commento del comitato elettorale è stato specificare che quel consulente non parlava a nome del candidato.

L'odio per Hillary Clinton ha occupato probabilmente il 90 per cento di tutti i discorsi della convention, ed è forse l'unica cosa che davvero unisce il partito. In una convention monopolizzata da quest'odio e dalla descrizione dell'America come un paese allo sbando, soltanto i figli e la moglie di Trump hanno fatto – e bene – la cosa che più si fa di solito alle convention statunitensi: presentare il candidato al paese raccontando storie e aneddoti sulla sua vita. Un'altra cosa che è mancata del tutto sono le proposte, il "come". Tutti gli oratori hanno detto che Trump renderà l'America di nuovo grande, di nuovo ricca, di nuovo sicura, di nuovo prospera, e ok, e figuriamoci se uno si aspetta di sentire alla convention complicate descrizioni programmatiche. Ma a Cleveland, anche rispetto alle convention del passato, non c'è stato niente di niente: il tema della prima serata era l'immigrazione e non si è parlato nemmeno del benedetto muro al confine col Messico, il tema della seconda serata era il lavoro e nessuno ha parlato di lavoro.

Il New York Times due giorni fa ha raccontato una storia esemplare di questo tipo di approccio di Trump. Quando Donald Trump Jr. è andato a proporre a John Kasich di fare il vice di suo padre, gli ha detto: «Vuoi essere il vicepresidente più potente della storia? Perché mio padre intende delegare al vicepresidente la politica estera e la politica interna». Al che Kasich ha chiesto, giustamente: «Ma allora lui di cosa si occuperà?». E il figlio di Trump ha risposto con grande nonchalance: «Making America great again».

Poi, le convention sono uno show, no? I palloncini, i cartelli, eccetera. E Trump è uno showman, no? Eppure ho visto uno show scadente. Scalette e orari saltati del tutto, discorsi importanti a orari improbabili (Joni Ernst, per esempio) e discorsi improbabili a orari importanti (un'attrice di soap opera degli anni Novanta oggi coltivatrice di avocado, giuro). Ho visto Trump telefonare in diretta a Fox News durante uno dei discorsi più efficaci della prima sera, quello di Pat Smith, di fatto oscurandolo. Ho visto il capo del suo comitato elettorale, Paul Manafort, andare in tv poco prima del discorso di Trump e dire non una ma due cose enormi, di quelle che distraggono da tutto il resto.

In un paese che diventa ogni anno meno bianco, ho visto un partito che lo diventa ogni anno di più. Alla convention del Partito Repubblicano del 2004 i delegati neri erano 167 su circa 2.500; a quelle elezioni George W. Bush ottenne il 14 per cento dei voti tra i neri. Poco, dite? Certo. Ma alla convention dei Repubblicani del 2016 i delegati neri sono stati 18 su circa 2.500. E in questo momento nei sondaggi Hillary Clinton ha l'86 per cento delle preferenze tra i neri, contro il 4 per cento di Trump.

Ho visto, e questa è la cosa che mi ha preoccupato di più, una quantità di cose false spacciate o prese per vere preoccupante persino per una convention di partito, cioè un posto dal quale di norma la verità gira al largo. Dati inventati, fatti mai accaduti, frasi estrapolate dal contesto, teorie del complotto. Trump per esempio ormai allude spesso al fatto che Obama sia contento che i poliziotti vengano uccisi o che l'ISIS compia attentati in Europa e negli Stati Uniti. Generalizzo, naturalmente, perché Paul Ryan non è Ted Cruz, e perché i Repubblicani più rispettabili e sensati sono stati alla larga da Cleveland, ma ho visto un partito reazionario più che conservatore: un partito che lotta terrorizzato contro il presente, più che contro Hillary Clinton e i Democratici, che non ce l'ha col futuro ma proprio con il presente. Bastava dire «io non sono politicamente corretto» per prendere gli applausi più forti, oppure dire cose «riprendiamoci l'America». Ma i Repubblicani che ho visto a Cleveland non vogliono riprendersi l'America per farla nuova, bensì per rifarla com'era prima, per renderla «great again», con un continuo riferimento a un'età dell'oro precedente all'arrivo di Barack Obama che però non c'è mai stata, visto il numero totale di citazioni di George W. Bush alla convention (zero).

Infine, non ho visto e non ho parlato con nessuno che non fosse squisito, amichevole, spiritoso e disponibile; a un certo punto ho ascoltato per un'ora uno sconosciuto funzionario locale dell'Indiana (lui) raccontare con spirito, arguzia, argomenti rispettabili e onestà intellettuale di come e perché sosterrà Trump dopo averlo combattuto alle primarie. Questa in fondo è la cosa che rende appassionante questa storia, e la politica in generale: le persone. In Italia siamo passati qualche tempo fa da un fenomeno simile, quando circolava quell'idea balorda che per votare Berlusconi si potesse essere solo delle macchiette, disonesti o ladri. Gli elettori del Partito Repubblicano possono sicuramente avere torto marcio su tutto, ma sono delle persone.

Non sarò mai più vicino di così a The Donald.

Quando ci sentiamo
Domenica riceverete un'altra newsletter, con qualche approfondimento a freddo sulla convention dei Repubblicani, qualche dritta su cosa aspettarsi dalla convention dei Democratici, che comincia lunedì a Philadelphia, e le cose fondamentali da sapere sul candidato alla vicepresidenza di Hillary Clinton, che dovrebbe essere annunciato tra poche ore. Martedì uscirà la quinta puntata del podcast, registrata a Philadelphia. Ogni giorno durante la convention farò – di solito intorno alle 18-19 ora italiana – un punto della situazione su cosa ci aspetta in diretta streaming: quelli che ho fatto in questi giorni a Cleveland li trovate qui. Su Facebook Live cercherò di mostrarvi un po' della città e del dietro le quinte della convention, dal media center a tutto il resto. Sul Post scriverò dell'andamento quotidiano della convention. Se poi proprio non ne avete abbastanza ci sono i miei account su Facebook, su Twitter e su Instagram, dove pubblicherò foto, link e pensieri più brevi: e i link alle dirette in streaming di cui sopra. Su Instagram trovate molte foto di cibo e schifezze che mangio: siete avvisati.

A presto, ciao!

Hai una domanda?
Scrivimi a costa@ilpost.it oppure rispondi a questa email, che poi è la stessa cosa.

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Francesco Costa · Quartiere Isola · Milan, VA 20159 · Italy