Questa newsletter sta per compiere un anno e le primarie dei Democratici e Repubblicani, che prima abbiamo atteso insieme come si attende qualcosa di lontanissimo nel tempo, e poi abbiamo seguito per mesi, finiscono fra tre giorni. Vorrei pensare una cosa meno scontata di come-passa-il-tempo ma non ci riesco, e devo dire anzi che tutto questo mi mette persino un po' di angoscia. Non potremmo andare un po' più piano? Scusate la parentesi personale. Le primarie finiscono fra tre giorni, dicevamo. Quelle dei Repubblicani non contano, perché Donald Trump è l'unico candidato in corsa e ha già ottenuto un numero tale di delegati da essere matematicamente certo della nomination. Quelle dei Democratici contano ma più dal punto di vista politico che per l'effettiva vittoria della nomination, che andrà a Hillary Clinton. Per questo motivo le informazioni che seguono si concentrano quasi esclusivamente sui Democratici.
Di cosa stiamo parlando
Martedì 7 giugno si voterà per le primarie del Partito Democratico in California (primarie semi-chiuse, 475 delegati), Montana (primarie aperte, 21 delegati), New Jersey (primarie semi-chiuse, 126 delegati), New Mexico (primarie chiuse, 34 delegati), North Dakota (caucus aperti, 18 delegati), South Dakota (primarie semi-chiuse, 20 delegati). Ci saranno in realtà delle successive e finali primarie il 14 giugno nel solo District of Columbia, ma la competizione si chiude il 7 giugno. Come potete notare, i bersagli grossi sono due: New Jersey e soprattutto California. I delegati vengono assegnati con criterio proporzionale.
Hillary Clinton è in vantaggio su Bernie Sanders nei voti presi, negli stati vinti, nei delegati eletti con le primarie e nei superdelegati. Sarebbe in vantaggio su Bernie Sanders comunque, a prescindere dal metodo con cui si decide di convertire i voti in delegati. Le mancano 72 delegati per arrivare ai 2.383 che le darebbero la certezza della nomination: li otterrà probabilmente persino prima che chiudano i seggi in California. E anche se perdesse di 10 punti percentuali in California, il suo vantaggio su Sanders in termini di delegati eletti con le primarie resterebbe il doppio di quello che Obama aveva su di lei nel 2008. Per ottenere la maggioranza tra i delegati eletti con le primarie, Sanders dovrebbe vincere in tutti gli stati che devono votare con almeno il 67 per cento dei voti.
Se le cose stanno così, starà pensando qualcuno, di cosa stiamo parlando? Perché sono importanti queste primarie? Perché chiudere le primarie con una sconfitta nello stato più popoloso del paese sarebbe un grande segnale di debolezza per Hillary Clinton, e confermerebbe le preoccupazioni di molti Democratici per le fragilità della sua campagna elettorale. Perché una sconfitta darebbe a Sanders un appiglio per continuare a comportarsi da candidato e invitare i super-delegati a passare dalla sua parte e togliere la nomination a Clinton nonostante la sua vittoria tra gli elettori (non sarebbe proprio il massimo della democrazia, ma Sanders ripete da settimane di volerlo fare). Perché nel momento in cui Sanders annuncerà la fine della sua candidatura e il suo sostegno per Hillary Clinton, i numeri di Hillary Clinton nei sondaggi contro Trump cominceranno a crescere. Anche per questo la settimana scorsa Clinton ha cancellato una serie di iniziative programmate in New Jersey e ha deciso di fermarsi a fare campagna elettorale in California.
Dove si vota, quindi
La California è lo stato più popoloso degli Stati Uniti e il terzo per estensione. È quello che occupa quasi tutta la costa ovest del paese, per capirci. Los Angeles è la seconda città americana più grande dopo New York, e in California ci sono anche San Francisco e Sacramento, la capitale. È un posto che ha una mostruosa influenza culturale sul resto del mondo – internet, il cinema, le varie controculture hippie, sono tutte made in California – e se fosse una nazione autonoma avrebbe la terza economia del mondo. Dal punto di vista demografico, è un cosiddetto majority-minority state, cioè un posto in cui non c'è un gruppo etnico maggioritario sugli altri: il 38,6 per cento degli abitanti hanno origini latinoamericane, il 14,4 per cento hanno origini asiatiche, il 6,5 per cento sono neri. I bianchi sono passati dal 78 per cento nel 1970 al 38,5 per cento nel 2014.
Il New Jersey è invece dalla parte opposta, sulla costa est: è il quarto più piccolo stato americano ma anche quello in assoluto più densamente popolato. Ha una forte tradizione industriale e manifatturiera – è il posto in cui sono state inventate la radio FM, la batteria al litio e la zip, tra le altre cose – ma la sua vicinanza geografica con New York è stata negli anni spesso fonte di scherzi e battute. Visti da New York, gli abitanti del New Jersey sono i buzzurri di provincia: come i protagonisti di Jersey Shore, esatto. Ma il New Jersey è anche il posto dei Sopranos e di Bruce Springsteen. Dal punto di vista demografico, il New Jersey è uno degli stati americani più multietnici: i bianchi sono passati da essere l'85 per cento nel 1970 al 58,9 per cento del 2011. Sempre nel 2011 il 56,4 per cento dei bambini con meno di un anno in New Jersey non erano bianchi.

«Woke up this morning...»
Com'è andata la campagna elettorale
È stata una buona settimana per Clinton, tutto sommato, dopo un periodo più complicato: ha ottenuto il sostegno ufficiale dell'influente governatore della California, Jerry Brown; sono circolati sondaggi che la danno nuovamente in largo vantaggio a novembre (valgono poco, ma dal suo punto di vista almeno sono buone notizie da dare ai giornali); soprattutto ha pronunciato un discorso tostissimo contro la politica estera di Donald Trump. Per 35 minuti Clinton ha argomentato con grande efficacia perché sarebbe folle dare a Trump il potere dell'arsenale militare statunitense, in un discorso che è stato accolto molto bene dai media e che rappresenta probabilmente l'inizio di qualcosa. Vi spiego cosa intendo.
In molti in questi mesi hanno paragonato la candidatura di Donald Trump a quella di Barry Goldwater nel 1964. Goldwater era un senatore Repubblicano molto estremista che vinse le primarie a sorpresa, cavalcando la rabbia e la paura degli elettori del suo partito, e per mesi preoccupò mezzo mondo: in caso di vittoria, prometteva tra le altre cose che avrebbe messo fine alla Guerra fredda usando la bomba atomica con una certa disinvoltura. Goldwater perse malissimo contro quel fico spaziale di Lyndon Johnson – uomo dalla storia formidabile, presidente delle più grandi riforme progressiste del Dopoguerra – e Politico questa settimana ha intervistato i due strateghi che curarono la comunicazione della sua campagna elettorale. Quella fu la campagna di uno degli spot più famosi nella storia della politica americana, "Daisy". Nella sua semplicità ed efficacia è ancora pazzesco, cinquant'anni dopo.
Gli strateghi di Johnson dicono: se hai a che fare con un candidato pericoloso e irresponsabile, o vuoi descriverlo come tale, oltre a dirlo mostra concretamente quali sarebbero le conseguenze delle sue azioni. Cosa succederebbe se. Lo spot "Daisy" porta questo concetto all'estremo, con un messaggio iper-semplificato: ma è per questo che funziona. Dopo il discorso di Clinton contro Trump che abbiamo visto questa settimana, non mi stupirei di vedere circolare spot come questo: anche perché Clinton di suo non è popolarissima, come abbiamo detto e notato più volte, e quindi potrebbe risultarle persino comodo puntare su quanto il suo avversario sia peggiore di lei, invece che su quanto lei sia migliore di lui.
E Sanders? È stato meno presente sui media che in passato e stava per mettersi nei guai durante un'intervista con Rolling Stone: gli hanno chiesto come farà a far approvare le sue riforme da un congresso a maggioranza Repubblicana, ha risposto – testuale – «bella domanda. La verità è che ora sono troppo impegnato in campagna elettorale per mettermi a trovare un modo». Però ha battuto la California contea per contea, organizzando moltissime iniziative e incontri e trovando ovunque grande entusiasmo: e d'altra parte la California è uno degli stati americani più di sinistra. Gli studenti dei college gli stanno dando una grossa mano e così molti dipendenti delle società tecnologiche che orbitano attorno a San Francisco. Risultato: una primaria che due settimane fa sembrava avere un risultato scontato oggi è molto incerta. Se si tiene conto del fatto che Sanders ha perso le primarie comunque, è un fatto incredibile.
Bonus
Bernie Sanders e Thurston Moore dei Sonic Youth hanno fatto una canzone. La regalano a chi fa una donazione alla campagna elettorale.
Cosa dicono i sondaggi
La media dei sondaggi dice che Hillary Clinton è molto avanti in New Jersey, dove ha 17 punti percentuali di vantaggio e – secondo l'algoritmo di Nate Silver – il 99 per cento di possibilità di vincere le primarie. In California invece le cose sono più equilibrate, perché Sanders sembra aver rimontato moltissimo negli ultimi giorni: la media dice che Clinton è ancora avanti ma di 4,7 punti percentuali, che non sono un abisso. Secondo l'algoritmo di Nate Silver ha il 92 per cento di possibilità di vincere le primarie, ma lo stesso Silver ha scritto in un articolo che secondo lui Sanders ha più chance di quante gliene dia la media dei sondaggi, vista la grande ripresa degli ultimi giorni. E questo anche perché Sanders è andato sì malissimo con gli elettori neri fin qui, ma con i latinoamericani potrebbe avere qualche carta in più.
In other news
Un po' di aggiornamenti rapidi.
– Paul Ryan, lo speaker della Camera, ha dato il suo sostegno ufficiale a Donald Trump. La storia del "ci devo pensare" è durata un paio di settimane. Poi il giorno dopo l'endorsement è tornato a criticare Trump per una cosa razzista che ha detto, e così veniamo al punto successivo.
– Trump ha molte cause legali in corso e una di queste riguarda la sua controversa "Trump University", che molti hanno descritto negli anni come una truffa. Il giudice che segue questo caso è americano, nato in Indiana, figlio di messicani. Trump ha detto che questo giudice ha un pregiudizio nei suoi confronti in quanto messicano, e per questo vuole condannarlo. «Sostenere che qualcuno non può fare il suo lavoro per via della sua etnia è la definizione esatta di razzismo», gli ha detto allibito il giornalista di CNN che lo intervistava, ma Trump ha insistito. Nel frattempo due importanti dirigenti latinoamericani del Partito Repubblicano – che da anni lavoravano proprio sul rapporto del partito con quel segmento di elettorato – hanno dato le dimissioni.
– Un gruppo di esaltati contestatori di Trump ha pensato bene di aggredire i pacifici sostenitori di Trump che stavano partecipando a un comizio del loro candidato. È successo a San Jose, in una parte di California famosa anche per un certo movimentismo violento di sinistra (Oakland è stato forse l'unico posto americano in cui nel 2012 i manifestanti di Occupy Wall Street fecero dei veri casini). I video fanno impressione, soprattutto per la gratuità con cui i sostenitori di Trump vengono aggrediti. Mi sembra un ottimo modo per dimostrare di essere peggiori di Trump.
– Sembra che la sempre più sfigata ricerca di un candidato indipendente da opporre a Trump stia per produrre la candidatura di David French, editorialista conservatore, costituzionalista, ex soldato, laureato ad Harvard. Ma anche totalmente sconosciuto, totalmente senza soldi e senza nessuna possibilità di potersi candidare in tutti e 50 gli stati americani. Non andrà da nessuna parte, sempre che si candidi. Il vero terzo candidato c'è già e si chiama Gary Johnson, del Partito Libertario: c'era anche alle elezioni del 2012 e prese uno zero virgola qualcosa, risultando ininfluente; magari stavolta otterrà qualcosa in più. Ne parleremo nelle settimane a venire: dalla prossima newsletter le primarie saranno definitivamente alle nostre spalle.

Prima di partire per l'Iraq, French impose a sua moglie di non bere, di non usare Facebook e di non parlare con gli uomini, nemmeno via email. Forse ci teniamo The Donald, che dite?
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