È online la seconda puntata del podcast sulla campagna elettorale americana: la trovate qui (se non avete iTunes, potete ascoltarla qui). Come sempre, ogni parere è benvenuto: basta rispondere a questa email. Per il resto, le notizie importanti della settimana sono quelle di cui abbiamo parlato mercoledì: Hillary Clinton ha ufficialmente vinto le primarie del Partito Democratico, e nel giro di 24 ore ha ricevuto gli endorsement più pesanti in circolazione: quelli del presidente Barack Obama, del vicepresidente Joe Biden e della senatrice Elizabeth Warren. Ora manca solo il suo avversario, Bernie Sanders, che non ha ancora nemmeno ammesso di aver perso le primarie. Cosa vuole fare? Vediamo di capirci qualcosa.
1. Sanders può ancora vincere le primarie?
No. Di solito i candidati alle primarie si ritirano non appena capiscono di non poter più vincere. Guardate cosa è successo tra i Repubblicani, per esempio: Bush, Rubio e Cruz si sono fermati molto prima di perdere ufficialmente. Se siete iscritti a questa newsletter da un po' sapete che Sanders da tempo era tenuto in gioco dalla matematica ma non aveva vere possibilità di rimontare lo svantaggio. Perché non si è ritirato? Per due motivi, su tutti. Il primo è legittimo e comprensibile: ha a cuore che tutti gli elettori possano esprimersi e votare a pari condizioni, a prescindere dal fatto che il risultato finale sia deciso o no. Il 14 giugno si vota per le ultimissime ininfluenti primarie, nel District of Columbia, e anche se non contano lui vuole dar modo a quegli elettori di dire la loro.
Il secondo motivo è meno comprensibile. Sanders sostiene che siccome Clinton non è arrivata alla maggioranza assoluta dei delegati contando solo quelli eletti con le primarie, ma per superare quella soglia ha bisogno di circa 200 voti dei superdelegati, che teoricamente possono ancora cambiare idea, allora finché non si voterà alla convention tutto è aperto. Teoricamente è vero, praticamente le cose non funzionano così: innanzitutto sapete che è assurdo contare i superdelegati per determinare la soglia a cui arrivare ma sostenere poi che Clinton debba arrivare a quella soglia senza superdelegati. Inoltre i superdelegati non hanno mostrato fin qui alcuna intenzione di cambiare idea: nessuno di loro in questi mesi è passato da Clinton a Sanders. Infine perché questo implica che Sanders si stia affidando all'eventuale decisione dei superdelegati di tradire la volontà popolare, altra cosa senza precedenti. Clinton ha avuto milioni di voti in più di Sanders, ha vinto in più stati, ha ottenuto più delegati: se Sanders dovesse vincere la nomination grazie ai voti dei superdelegati sarebbe, quello sì, un gesto clamorosamente anti-democratico. Ma è una prospettiva fuori dalla realtà.

Il discorso di Sanders dopo la sconfitta in California. "The struggle continues".
2. Ok, ma allora perché non si ritira?
Per avere più influenza sul processo da qui in poi: non è detto che ci riesca, ma questo è il tentativo. Sanders vuole che i documenti programmatici che saranno discussi e votati alla convention del partito riflettano le posizioni che ha promosso in campagna elettorale, e restare in corsa fino all'ultimo minuto possibile gli fornisce più potere contrattuale. È un azzardo, naturalmente, e non solo perché in nessuna competizione chi perde ottiene il diritto di porre condizioni, ma anche perché i suoi elettori rischiano di mollarlo: il grande e imprevisto distacco con cui Clinton ha vinto in California, nonostante Sanders da un mese si fosse praticamente trasferito da quelle parti, indica probabilmente che un pezzo degli elettori di Sanders ha già cambiato cavallo.
Concretamente, quello che Sanders può ottenere alla convention è per esempio un cambiamento delle regole delle prossime primarie: Sanders ha proposto più volte l'abolizione dei superdelegati, che considera anti-democratici (tralasciando il fatto che oggi però si affida al potere anti-democratico dei superdelegati per ottenere la nomination). Inoltre, Sanders può ottenere nomine importanti nelle commissioni tematiche del partito, l'accoglimento delle sue proposte più significative (per esempio il raddoppio del salario minimo, il college gratuito o le posizioni su Israele e Palestina) e un bel discorso in prima serata durante la convention di Philadelphia.
3. Ci sono anche ragioni personali?
È probabile. Sanders è un settantenne alla sua ultima grande campagna elettorale. Nella sua carriera le ha quasi sempre vissute da sfavorito, riuscendo però più di una volta a vincere: sa combattere e soprattutto è abituato a sentirsi dire "non hai speranze, ritirati" e a non ascoltare chi glielo dice. Spesso ha avuto ragione lui. Inoltre non è mai stato così finanziato e popolare. Alcuni dei suoi collaboratori più stretti però lo stanno mollando: il responsabile dei rapporti con gli studenti universitari – il preziosissimo cuore degli elettori di Sanders – è appena stato assunto da Hillary Clinton, mentre il suo staff ristretto ha passato a Politico un'email interna (brutto segno) che mostra come questa intransigenza non venga dal "movimento" o dai consulenti bensì da Sanders stesso.

I primi 25 secondi di questo video mettono un po' a disagio.
4. È vero che l’elezione è stata truccata?
No. Ma proprio no. Le regole delle primarie, che si possano considerare apprezzabili o discutibili, sono quelle stabilite all'inizio della campagna elettorale. E con qualsiasi sistema si sarebbe votato Hillary Clinton avrebbe vinto. I dati dimostrano peraltro che Sanders è andato così bene soprattutto per via della sua forza nei caucus, a cui l'affluenza è molto bassa, mentre Clinton ha vinto ogni volta che sono andate a votare molte persone: un dato che contraddice quello che dice spesso Sanders sulla sua forza quando l'affluenza è alta.
5. Sanders potrebbe essere scelto come vice di Clinton?
È possibile, ma non credo sia un'ipotesi percorribile. Innanzitutto i due non sembrano starsi molto simpatici (Obama richiamò sì Clinton, ma dopo mesi dalle primarie, dopo che lei l'aveva sostenuto con convinzione dall'istante in cui perse le primarie, e comunque non per farle da vice). I sondaggi e i risultati in California dicono che Clinton potrebbe anche fare meno fatica di quanto temesse a conquistare gli elettori di Sanders. Inoltre Sanders ha delle enormi fragilità, che per ora non sono emerse solo perché i Repubblicani non lo hanno sfiorato, perché gli faceva comodo la sua forza: alla prima domanda sulla pena di morte o sulle tasse rischierebbe il disastro vero. Ma vi consiglio di leggere questo articolo per capire come qualcuno interessato a fare a pezzi Sanders possa farlo con una certa facilità: basta spingersi dove Clinton non ha voluto andare per correttezza e per il sensato timore di inimicarsi il suo elettorato. Infine, far parte del governo come vicepresidente comporta responsabilità e poteri concreti ma anche una perdita di influenza politica, e questo a Sanders non credo interessi: da vice non potrebbe più criticare il presidente, per esempio, e non potrebbe più fare l'attivista e il capo-popolo.
6. Realisticamente cosa può ottenere?
Alla convention può ottenere concessioni importanti sui documenti programmatici, anche perché non sono comunque vincolanti per il candidato alla presidenza. Molto dipenderà da quanto, vinte le primarie, Clinton vorrà ulteriormente caratterizzarsi come candidata di sinistra per non perdere i voti di Sanders o se invece penserà che per trasformare la campagna elettorale in un referendum su Trump dovrà mantenere posizioni meno radicali, nessuna delle quali rischi di trasformarsi in un caso. Sanders ha un'arma di negoziato potente, e non è tanto il suo endorsement per Clinton, che comunque a un certo punto dovrà arrivare: il suo vastissimo indirizzario di sostenitori, soprattutto giovani.

Un comizio di Sanders in vista delle primarie nel District of Columbia. Dura un'ora e Hillary Clinton non viene nominata mai.
7. E se si candidasse da indipendente?
Not going to happen. Primo: sia lui che sua moglie che il suo staff hanno detto molte volte che non accadrà. Secondo: in molti stati è già passata la scadenza per presentare una candidatura da indipendente, e in quelli Sanders non potrebbe materialmente finire sulle schede elettorali. Terzo: un paio di altri stati hanno in vigore leggi contro il cosiddetto "sore loser", cioè "quello che non sa perdere", per impedire una candidatura da indipendente a chi ha perso le primarie di un partito. Quarto: non potendo concorrere in questi stati, Sanders non potrebbe vincere, e quindi l'unico risultato della sua candidatura sarebbe mandare Trump alla Casa Bianca. Quinto: in generale non avrebbe senso. Sanders ha una lunga carriera politica ma l'unico momento in cui ha costruito un vero grande e influente movimento popolare è stato quando ha concorso alle primarie del Partito Democratico. Non vuole essere ricordato come un Ralph Nader, il candidato di sinistra che prese quattro voti nel 2000 ma furono i quattro voti decisivi per far perdere Al Gore.
8. In fondo che cosa ha da perdere?
Da un certo punto di vista, molto poco: come dicevamo, Sanders è un settantenne all'ultima campagna elettorale della sua carriera. Il suo seggio da senatore in Vermont è blindatissimo. Dall'altra parte, però, il consenso costruito in questi mesi gli ha consegnato una grandissima influenza politica e una celebrità internazionale che sarebbe un peccato sprecare. Dal gennaio del 2017 Bernie Sanders può essere uno dei senatori più influenti del Congresso, il punto di riferimento dell'ala di sinistra del Partito Democratico, l'uomo da cui passano tutte le decisioni importanti: perché questo accada deve fare di tutto per non sprecare il capitale politico che ha guadagnato in questi mesi. Che non vuol dire star fermo e accettare tutto, sia chiaro, ma anzi sfruttare questo capitale per negoziare con Clinton ottenendo risultati. È un gioco delicato e sottile: deve tirare la corda, a volte anche dando l'impressione che potrebbe spezzarla, ma senza farlo mai, e sperando che Clinton non molli il capo della corda che tiene in mano.

Il modello possibile di Sanders: Jesse Jackson nel 1988. Perse le primarie, tirò dritto fino alla convention, qualcosa ottenne.
9. I suoi elettori con chi staranno?
È presto per rispondere a questa domanda. I sondaggi oggi dicono che i sostenitori di Sanders che hanno intenzione di votare Clinton sono tra il 55 e il 72 per cento. La fine delle primarie, gli endorsement di Obama, Biden e soprattutto Warren, lo stesso endorsement di Sanders quando arriverà, lo spauracchio di Trump, faranno salire questa percentuale – a meno che Clinton non combini qualche guaio, cosa sempre possibile. Cosa potrebbe farla scendere, invece? Un casino alla convention, per esempio, che venga visto dagli elettori di Sanders come l'ennesima manovra del partito per favorire Hillary Clinton. Ma la principale minaccia è Trump, che da settimane corteggia gli elettori di Sanders. La base elettorale di Sanders è composta in parte da elettori con valori e idee molto di sinistra, e in parte da elettori molto meno ideologizzati e molto arrabbiati con lo status quo, sedotti dalla promessa della "rivoluzione politica", dalle critiche agli accordi commerciali di libero scambio e dalla contestazione del potere delle lobby e banche. Con quegli elettori la candidatura di Donald Trump potrebbe avere argomenti più efficaci di quella di Hillary Clinton.

L'efficacia oratoria di Elizabeth Warren ha pochi rivali oggi nella politica statunitense.
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