Ciao da Milano, dove sono arrivato stamattina. Finita la convention dei Democratici a Philadelphia, quando Donald Trump era in vantaggio nei sondaggi e in giro c’era una certa preoccupazione, avevo scritto che non riuscivo a immaginare come Hillary Clinton avrebbe potuto perdere queste elezioni, per quanto la cosa fosse evidentemente possibile; consigliavo di non fidarsi dei sondaggi realizzati tra una convention e l'altra e ipotizzavo che di lì a poco Trump avrebbe fatto qualcosa di eclatante per riottenere l’attenzione dei media.
Ho avuto ragione su un po’ di cose, ma mai avrei pensato che quel “qualcosa di eclatante” si sarebbe tradotto nella più assurda settimana di campagna elettorale statunitense a memoria d’uomo.
Fermi! Questa settimana è uscita la sesta puntata del podcast sulle elezioni americane. È una puntata un po' diversa dalle altre, si intitola "I giorni della Russia", spero vi piaccia. La potete ascoltare qui su iTunes e qui su Spreaker. Ora possiamo continuare.
Dicevamo, quindi, che è stata una settimana assurda. Quella che segue è una lista sintetica – sintetica, giuro – delle cose che sono successe questa settimana a Donald Trump:
– ha continuato a litigare con i genitori del capitano Humayan Khan, un soldato americano e musulmano morto nel 2004 in Iraq, costringendo persino gente come Chris Christie a dissociarsi pubblicamente. Alcuni suoi sodali e collaboratori hanno messo in giro voci inventate di sana pianta secondo cui il padre di Khan lavora con i Fratelli Musulmani; Trump ha detto che il padre di Khan è «infastidito» dai suoi piani per tenere i terroristi lontani dal paese. Parliamo dei genitori di un soldato americano morto in Iraq. Questo paragrafo rileggetelo.
– la sua portavoce Katrina Pierson ha detto che il capitano Khan è morto in guerra per colpa delle decisioni di Hillary Clinton e Barack Obama. Solo che Khan è morto nel 2004, quando né Obama né Clinton erano al governo. E anche se oggi dice il contrario, per la cronaca Donald Trump era favorevole alla guerra in Iraq.
– ricevendo in dono da un suo sostenitore una Purple Heart, la medaglia consegnata ai soldati feriti in guerra, ha detto di aver “sempre voluto” una Purple Heart ma è che è stato “molto più facile ottenerla così”. AI tempi della guerra in Vietnam, Trump brigò parecchio per farsi riformare e riuscì a non partire.
– ha detto che «se le elezioni fossero truccate, non ne sarei sorpreso». Obama ha commentato dicendo di ricordarsi da bambino qualche amichetto che frignava quando perdeva dicendo che gli altri avevano barato, ma che non aveva mai visto qualcuno denunciare imbrogli addirittura prima di giocare la partita.
– ha detto che Hillary Clinton è «il diavolo».
– ha detto che la lotta alle molestie sessuali sul posto di lavoro «è una questione individuale»: se sua figlia Ivanka venisse molestata sul posto di lavoro, «farebbe bene a cambiare lavoro».
– ha cacciato da un suo comizio un bambino che piangeva.

Sul serio.
(quanto sopra è accaduto peraltro in 24 ore. Ma andiamo avanti)
– ha suggerito agli americani di ritirare la loro previdenza integrativa dai fondi quotati in borsa.
– ha dato un’intervista al Washington Post durante la quale si è interrotto cinque volte per guardare la tv.
– si è inventato di aver visto un video che che mostrerebbe un aereo americano mandare 400 milioni di dollari in contanti in Iran per ottenere il rilascio dei militari arrestati lo scorso gennaio. Anche quando il suo stesso comitato elettorale ha chiarito che quel video non esiste, e quindi Trump non poteva averlo visto, lui ha continuato a dire di averlo visto. Poi ha ammesso che non l'ha visto.
– ha ammesso di essersi inventato la lettera con cui la NFL si lamentava della programmazione dei dibattiti televisivi autunnali.
– potrebbe trovarsi presto a chiarire se sua moglie, Melania Trump, ha lavorato negli Stati Uniti da immigrata irregolare.
– è stato mollato, a favore di Hillary Clinton, dal deputato Repubblicano Richard Hanna, da un’importante collaboratrice di Chris Christie, dalla stratega elettorale di Jeb Bush e dall’ex senatore Repubblicano Gordon Humphrey (del New Hampshire, stato in bilico). Adam Kinzinger, deputato Repubblicano dell’Illinois, ha detto che non intende votare Trump ma nemmeno Clinton. Poi c’è Meg Whitman, pezzo grosso dei Repubblicani in California, ricchissima manager di HP e già candidata a governatrice, che ha detto: non voto Trump, voto Clinton e le darò pure una mano a fare campagna elettorale e raccogliere fondi.
– è stato definito «una minaccia alla sicurezza nazionale» e «un agente involontario di Putin» da Michael Morell, ex capo della CIA.

Non solo mangia la pizza al contrario, ma pure il pollo fritto con forchetta e coltello.
– ha passato più tempo ad attaccare i suoi compagni di partito che Hillary Clinton. Ha detto che non sostiene il senatore John McCain, uno che si è fatto cinque anni e mezzo di prigionia e torture in Vietnam, alle primarie di partito della settimana prossima, perché «non ha fatto bene ai reduci di guerra». Ha criticato la senatrice Repubblicana Kelly Ayotte perché «non mi sta dando una mano per niente». E poi, bomba delle bombe, ha detto che alle primarie della settimana prossima in Wisconsin non sostiene Paul Ryan, speaker della Camera e Repubblicano più alto in grado al Congresso, ma il suo sfidante sciroccatissimo e senza speranze. Il suo vice, Mike Pence, ha detto che sostiene sia Ryan che Ayotte che McCain. Trump allora ha detto in tv che Pence gli ha chiesto il permesso e poi due giorni dopo ha cambiato idea e ha dato il suo endorsement a Paul Ryan.
Si è trattato di una ritorsione, perché sia Ryan che McCain si erano dissociati pubblicamente dagli attacchi di Trump alla famiglia Khan; Trump ha persino usato le stesse identiche parole usate da Ryan quando non aveva ancora deciso se sostenerlo o no («I’m just not there yet»). Ma è stata la ritorsione di uno che, oltre a non sapere perdere, sembra non sapere neanche vincere: alla fine Ryan ha dato il suo sostegno a Trump, ha persino parlato in suo favore alla convention. Ma sembra che Trump più di ogni altra cosa sia interessato a esercitare una posizione dominante sulla situazione: per questo mette in discussione la calendarizzazione dei dibattiti, per questo il giorno dopo la fine della convention si mette a discutere del padre di Ted Cruz, per questo mette molto più impegno nelle piccole vendette contro i Repubblicani che nella campagna contro Clinton, per questo non riesce a trattenere nemmeno un'incazzatura su Twitter, per questo ci tiene a precisare che Pence gli ha chiesto il permesso di sostenere Ryan, eccetera. È una specie di disturbo narcisistico della personalità.
In giro si parla di frotte di Repubblicani pronti a ritirare il loro sostegno per Trump. È possibile, ma io ci crederò quando lo vedrò. Prendete gente come Ryan o McCain, innanzitutto: non hai ritirato il tuo sostegno a Trump quando ha insultato la famiglia di un militare morto, irriso un disabile, inventato frottole clamorose, eccetera, e lo fai quando ti fa un dispettuccio personale? Buona fortuna. Inoltre, e questo vale per tutti gli altri, Trump rimane il legittimo vincitore delle primarie dei Repubblicani, sostenuto dalla maggioranza della base del partito. Chi oggi gli volta le spalle, insomma, decide di cambiare partito – ma i Democratici non sono mai stati così di sinistra, spazi da quella parte non ce ne sono – oppure mette in conto la possibilità concreta di chiudere la sua carriera politica. Per questo fin qui lo hanno fatto politici influenti ma in pensione (Humphrey), o che ci stanno andando (Hanna) o che risiedono in posti dove i Repubblicani sono più moderati che nel resto del paese (Whitman). Anche perché in settimana ci si è messo anche quel furbone di Obama, sostenendo che i Repubblicani dovrebbero abbandonare Trump – e quindi, di fatto, rendendolo impossibile e costringendoli ad affondare con lui.

Trump non è la causa dei problemi del Partito Repubblicano, in cui i fuori di testa hanno preso il potere: Trump è la conseguenza. Questo è uno spot del candidato a governatore del Missouri.
Cosa dicono i sondaggi
Mi cito di nuovo perché è utile capire come – anche in una campagna elettorale così diversa dalle altre – alcune cose sono prevedibili e rispondono ancora alle leggi di gravità. Due settimane fa, quando Trump era in testa ai sondaggi e in giro fioccavano analisi preoccupate, scrivevo che quei sondaggi non avevano senso e non andavano neppure guardati, e rimandavo alla settimana successiva alla convention dei Democratici per un quadro della situazione più realistico. Il quadro, quindi: oggi sul piano nazionale Hillary Clinton ha un vantaggio tra i 9 e i 15 punti percentuali, uno dei più larghi mai registrati nella storia elettorale statunitense recente. Il rimbalzo successivo alla convention si è unito al disastro di Trump di cui sopra, quindi è difficile capire cosa ha contato di più. Ma le brutte notizie per Trump non sono finite.
Il vantaggio di Clinton sul piano nazionale si riflette anche sui dati stato per stato, che come sapete sono gli unici che contano davvero. Non solo Clinton è oggi molto avanti in Pennsylvania, dove Trump è costretto a vincere, e gioca in attacco in Florida e Ohio; ma ha interrotto gli investimenti in due stati in bilico – Colorado e Nevada – dato che secondo i sondaggi non sono più in bilico, sta costringendo Trump a spendere tempo e risorse, sottraendoli altrove, in posti in cui una volta i Democratici non mettevano piede come l’Arizona, lo Utah o la Georgia. Il comitato di Clinton, comunque, sta investendo 98 milioni di dollari in spot televisivi negli stati in bilico; il comitato di Trump invece 900.000 dollari. Sarà vero che gli spot pesano meno di un tempo, ma una differenza di dieci volte qualcosa fa.
Altri dati? In Florida, altro posto dove Trump deve vincere, secondo i sondaggi ha oggi il sostegno del 12,9 per cento delle persone di origini latinoamericane. Nel 2008 e nel 2012 i candidati Repubblicani – John McCain e Mitt Romney – ottennero circa il 40 per cento dei voti dei latinoamericani. E persero comunque la Florida. E oggi gli elettori latinoamericani sono più che allora.
Su base nazionale, invece, Trump ha l’1 o il 2 per cento dei voti degli elettori afroamericani. E se si considerano gli elettori con meno di trent’anni, Clinton ha il 41 per cento dei consensi, il libertario Gary Johnson il 23 per cento, la verde Jill Stein il 16 per cento e Donald Trump il 9 per cento. Il Partito Repubblicano con questa candidatura si sta giocando un pezzo del suo futuro.
Bonus
C’è una famosa puntata di The West Wing – devo averne parlato in qualche vecchia newsletter – in cui la portavoce della Casa Bianca ha un ascesso a un dente e non può tenere il briefing quotidiano; quindi un alto funzionario della Casa Bianca – un tipo geniale, ma che fa un altro mestiere – decide di fare il gradasso e sostituirla. Messo in difficoltà dalle domande dei giornalisti molto più di quanto avrebbe pensato, si ritrova senza neanche accorgersene a sostenere che il presidente ha «un piano segreto per combattere l’inflazione». Ci ho ripensato perché Trump questa settimana ha detto: «Andremo benissimo in stati a cui la gente non pensa nemmeno. Preferisco non dire quali. Perché dovrei attirare l’attenzione? Possiamo essere competitivi in stati in cui nessun Repubblicano è mai stati competitivo. Ma non voglio dire quali sono. Non pensa anche lei che sia meglio così? Preferisco non dirlo». Il giornalista gli ha risposto: «Quindi vincerà con la strategia degli stati segreti?».
Ok, però: cosa diavolo sta succedendo?
Mi cito di nuovo, terza volta in una sola newsletter, record: ma è per gli stessi motivi di cui sopra. Nella newsletter successiva alla convention dei Repubblicani a Cleveland, avevo scritto che il Partito Repubblicano e il comitato elettorale di Trump erano in uno stato di completo caos e disorganizzazione. E se cose come il plagio del discorso di Melania Trump non avrebbero spostato nemmeno un voto, il livello di improvvisazione che aveva reso possibile cose come il plagio del discorso di Melania Trump avrebbe potuto generare guai ben peggiori. Ecco: avete visto?
Stuart Stevens, stratega Repubblicano della campagna elettorale di Mitt Romney nel 2012, l’ha messa così:
«La maggior parte delle macchine viaggia tranquillamente a 50, 60 chilometri orari. Il vero test arriva quando le fai viaggiare a 150 chilometri orari, giorno e notte. A quel punto vengono fuori i difetti, i problemi, cadono i pezzi. Dalle convention in poi, i comitati elettorali devono andare alla massima velocità. Io non credo che il comitato di Trump sia peggiorato o migliorato rispetto a due mesi fa. È solo che allora potevano andare più piano. Ora devono andare più veloce e non riescono a mantenere il controllo»
Sempre Stevens si è unito a quelli che da qualche tempo non si limitano a mettere in discussione le idee o il carattere di Donald Trump, ma la sua sanità mentale. «Donald Trump è un estremista. Ma definirlo così non è giusto nei confronti degli estremisti. Gli estremisti non sono pazzi. Gli estremisti hanno idee politiche che li rendono ineleggibili. Il problema di Donald Trump non sono le idee, è l’instabilità. È un candidato assurdo. È una bomba che è esplosa dentro il Partito e sta distruggendo tutti quelli che gli stanno intorno».
Il Partito Repubblicano può ancora far fuori Trump?
Il solo fatto che se ne parli dice molto, ma la risposta è no. Donald Trump ha ottenuto la candidatura alla convention del Partito Repubblicano, peraltro diventandone così il leader politico. Non è una cosa facilmente reversibile, a meno che non sia lui a ritirarsi.
Le regole del partito prevedono che un organismo direttivo composto da 168 persone possa colmare una «vacanza» del candidato se questo si ritira, se muore o «altre ragioni». Quando questa regola è stata scritta, per «altre ragioni» si intendevano cose tipo "gli viene un infarto e va in coma": non ragioni politiche. Una forzatura del genere non avrebbe precedenti e, soprattutto, lancerebbe il Partito Repubblicano verso una sconfitta probabilmente peggiore di quella che otterrebbe con Trump come candidato, perdendo Casa Bianca, Camera e Senato in un colpo solo: gli elettori di Trump probabilmente non andrebbero a votare del tutto. E poi c'è sempre quella faccenda non secondaria: chi dovrebbe essere il candidato alternativo? Non è automatico che sia Mike Pence. Inoltre ci sono delle scadenze statali perché il nome del candidato appaia effettivamente sulla scheda elettorale: alcune sono già passate, altre passeranno presto. Diciamo così: la rimozione di Trump dal ticket Repubblicano, a meno che lui non si ritiri, è tecnicamente possibile ma politicamente impossibile. Poi in questa campagna elettorale abbiamo visto anche cose impossibili, ma ecco, io non ci investirei grandi speranze.
E quindi è finita?
No. Ma proprio no. Innanzitutto tenete presente una cosa: i movimenti nei sondaggi si devono solo in una parte minoritaria a elettori che cambiano idea e passano da Clinton a Trump. D'altra parte lo dice anche il buon senso: chi è che, con due candidati così abissalmente diversi, da una settimana all'altra passa da Trump a Clinton e poi di nuovo a Trump e poi di nuovo a Clinton? Per la maggior parte si tratta di elettori di centrodestra o di centrosinistra che non sono convinti dai candidati del loro partito di riferimento, e che quindi secondo il momento passano dalla colonna dei "voterò Trump"/"voterò Clinton" alla colonna del "sono indeciso". Questo vuol dire che a Trump potrebbe bastare anche solo non fare disastri per un paio di settimane per recuperare un po' nei sondaggi: magari non abbastanza da sorpassare di nuovo Clinton, ma sicuramente abbastanza da riaprire la partita.
Infine, gli elettori statunitensi non devono scegliere il loro candidato preferito in assoluto ma il loro candidato preferito tra quelli a disposizione: alcuni voteranno il libertario Johnson o la verde Stein, ma per la grandissima parte di loro si tratta di una scelta ancora più semplice, Trump, Clinton o non voto. Quindi si può vincere anche per autodistruzione dell'avversario. Un esempio assurdo, per capirci: se domani scoprissimo che Hillary Clinton ha dei bambini morti dentro l'armadio, Trump vincerebbe le elezioni anche continuando a fare disastri. Un esempio meno assurdo: e se i prossimi documenti riservati diffusi da Wikileaks mostrassero che la Fondazione Clinton accettava ricche donazioni da leader politici stranieri proprio mentre Hillary Clinton, da segretario di Stato, conduceva importanti negoziati e trattative con quei leader politici stranieri per conto degli Stati Uniti?
Visto come sono andate le cose fin qui in questa campagna elettorale, qualcuno di voi si sente di escludere nuovi colpi di scena? Sarà finita l'8 novembre.
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