17 giorni alle elezioni statunitensi

Con ogni probabilità, quando leggerete questa newsletter io sarò sull'aereo che dall'Iowa mi riporterà in Italia. È stata una bella settimana, interessante e intensa: ho capito qualcosa in più di uno stato che ha un ruolo particolare nella politica statunitense e che oggi rappresenta una specie di confine tra l'America del passato e quella del futuro. Ho raccontato il mio viaggio e la campagna elettorale in Iowa nella nuova puntata del podcast, che potete ascoltare qui su Spreaker e qui su iTunes. Se le cose che ho pubblicato in questi giorni su Facebook, Twitter e Instagram vi hanno incuriosito, ascoltatelo.

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Ho ripensato un po' al terzo dibattito tra Clinton e Trump, ho letto un po' di cose, e mi sono fatto quest'idea: che di nuovo Trump abbia dato una dimostrazione esemplare di come lungo questi mesi abbia sempre messo il suo ego davanti alla possibilità di vincere le elezioni. Non solo è caduto di nuovo in tutte le trappole che gli ha teso Hillary Clinton, rinunciando ad attaccarla sui suoi punti deboli pur di rispondere ad allusioni sulla Russia o sul suo carattere. Non solo non si è ben preparato, dando per esempio una risposta semplicemente incomprensibile sulla Siria. Soprattutto ha sprecato la sua ultima chance di parlare a un vasto pubblico, che per un candidato in svantaggio vuol dire suicidarsi: e Trump si è suicidato politicamente quando ha detto che non ha ancora deciso se accetterà o no l’esito del voto.

Primo: tutti i sondaggi dicono che questo è un argomento molto impopolare persino tra i Repubblicani, per non parlare degli altri, e allontana gli elettori che Trump dovrebbe convincere. Secondo: è un argomento che rischia di raffreddare anche i suoi elettori, specie se percepiscono che Trump va verso una sconfitta epocale. A nessuno piace votare per chi sta per andare incontro a una delle più grandi umiliazioni della storia americana recente: e perché dovrebbe farlo se il voto è pure truccato? Terzo: senza quella frase Hillary Clinton probabilmente avrebbe vinto comunque il dibattito, ma negli ultimi due giorni avremmo parlato d’altro. Magari avremmo parlato della sua risposta incerta sulla fondazione di famiglia. Oppure del cosiddetto "caso Kennedy" (ci arriviamo). Invece no: abbiamo parlato di Trump che dice che accetterà il risultato solo se vince. Una barzelletta.

Niente di tutto questo è particolarmente complicato da capire. Allora perché l'ha fatto, Trump? Ormai lo conosciamo abbastanza da avere la risposta a questa domanda: perché vede come un oltraggio inaccettabile la sola possibilità di perdere. È davvero come fece quando non vinse agli Emmy. Trump preferisce dire che la sua sconfitta non sarebbe tale e che la partita è truccata prima di giocarla, rendendo così la stessa sconfitta più probabile, invece che lavorare per vincere sapendo che questo comporta rischiare di perdere. Tiene più al suo ego che alla vittoria.

Si è detto spesso in questi mesi che Trump sarebbe un pessimo presidente ma è stato un candidato formidabile. Questo però è proprio un difetto da candidato: gigantesco e probabilmente letale. Non solo: si è detto che l'ascesa di Trump ha dimostrato quanto poco gli esperti e gli analisti capiscano il popolo americano, visto che non gli davano nessuna chance. È vero che per molto tempo nessuno ha preso sul serio la candidatura Trump: me compreso, per quel che vale. È vero che nessuno aveva previsto che avrebbe potuto vincere le primarie del Partito Repubblicano. Ma ecco: qualcuno l'aveva detto che la sua candidatura sarebbe stata ridicola. E se l'8 novembre Trump dovesse ottenere una larga sconfitta, di nuovo: qualcuno l'aveva detto.

La lettera che George H. W. Bush lasciò nello Studio Ovale per Bill Clinton, dopo aver perso le elezioni del 1992.

Un po' di dati e numeri sullo stato della corsa
È stata un'altra settimana di dati molto incoraggianti per Hillary Clinton e pessimi per Donald Trump. Dal punto di vista nazionale Clinton ha ancora un vantaggio medio di circa 6 punti percentuali, che è piuttosto indicativo dell'aria che tira e soprattutto di come sia un fatto e non un'opinione che abbia vinto i tre dibattiti (ditelo al vostro amico che insiste che almeno uno lo abbia vinto Trump). Ma le cose più interessanti, ormai lo sapete, sono quelle che vengono dai singoli stati.

Clinton è in vantaggio di almeno 5 punti in Colorado, Michigan, New Hampshire, Pennsylvania, Virginia e Wisconsin. Se vincesse solo in questi stati in bilico, anche perdendo Ohio, Florida, North Carolina, Nevada, Iowa, eccetera, supererebbe i 270 grandi elettori che servono per arrivare alla Casa Bianca. I dati dicono che Trump rischia di ottenere meno voti di qualsiasi altro candidato Repubblicano o Democratico negli ultimi vent'anni. Altro numero interessante: Clinton sta consolidando il suo gradimento tra gli elettori più giovani, i cosiddetti millennials, che fin qui erano stati uno dei suoi punti deboli. Il lavoro dei suoi "surrogati" più popolari – gli Obama, Sanders, Warren, Biden – sembra stia funzionando.

Poi ci sono un po' di dati veri, perché come sapete in molti stati americani si sta già votando. Le schede elettorali ovviamente saranno scrutinate l'8 novembre, ma in America gli elettori possono indicare la loro affiliazione partitica quando si iscrivono alle liste elettorali, quindi conosciamo l'affiliazione di chi ha già votato. Essere registrati come Democratici non impegna a votare Clinton, ovviamente, e lo stesso vale per il Partito Repubblicano: il voto è sempre libero e autonomo dalla propria affiliazione. Ma statisticamente le due cose sono collegate.

Lo spot di Obama per il comitato Clinton che invita a votare in anticipo. La parte sulle conferenze stampa è una battuta per addetti ai lavori: Obama in realtà è sempre in ritardo alle conferenze stampa, tanto che qualcuno ha aperto un account su Twitter per registrare tutti i minuti che Obama fa perdere ai giornalisti.

Cosa dicono i dati sull'early voting, quindi. Nei sette stati dei quali è possibile analizzare l'affiliazione partitica di chi ha già votato, gli elettori Democratici sono al momento di più di quanti erano nel 2012 a questo punto. In certi casi, come Arizona e North Carolina, sono molti di più. In Florida i Democratici stanno andando molto meglio anche col voto per posta, che da quelle parti tradizionalmente favorisce i Repubblicani: e la Florida è lo stato su cui più si concentrerà la campagna elettorale nei prossimi giorni, perché quello più a portata di mano per Clinton tra quelli in bilico, e se vince quello ha vinto tutto. Ah, in tutto questo, a due settimane dal voto il direttore politico della campagna di Trump se n'è andato. E la sua campaign manager, che a settembre era riuscita a resuscitare la sua campagna elettorale, sembra averci rinunciato.

Conosco la prossima domanda. I sondaggi si possono sbagliare? La risposta è sì, certo che si possono sbagliare. Sapete com'è andata con Brexit. Ma nel caso di Brexit un errore di 2-3 punti è bastato a ribaltare il risultato. In questo caso per ribaltare il risultato dovremmo avere un errore di 6-7 punti nel dato nazionale, e altrettanti errori in una decina di stati. È possibile che alcuni elettori di Trump non lo dichiarino ai sondaggisti, e quindi il suo consenso sia sottostimato? È possibile. Ma durante le primarie i risultati dei sondaggi su Trump si sono rivelati sempre piuttosto precisi, i dati di cui parliamo sono coerenti tra loro anche tra istituti diversi con metodologie diverse (anche per questo è sempre meglio affidarsi alle medie) e i profili demografici degli elettori in un posto come gli Stati Uniti aiutano a pesare bene il campione e limitare gli errori. Inoltre, data l'enorme disparità in termini di organizzazione territoriale tra le due campagne – un fattore che può pesare molto, soprattutto in certe parti d'America – alcuni si chiedono se in realtà i sondaggi oggi non stiano sovrastimando Trump, e sottostimando Clinton.

La mia idea è che ci si possa fidare di come i sondaggi descrivono lo stato attuale della corsa: d'altra parte si tratta di medie tra decine e decine di sondaggi, effettuati da istituti diversi con metodi diversi e campioni affinati ormai nel corso di mesi, e ci danno tutti un quadro coerente. Questo non vuol dire che Clinton abbia già vinto le elezioni, ovviamente: in una campagna elettorale come questa niente si può escludere fino alla fine. Ma servirà una sorpresa bella grossa per dare a Trump la spinta per recuperare così tanto distacco in così poco tempo.

IL è il mensile del Sole 24 Ore. Nel nuovo numero, che trovate in edicola da ieri, c'è un mio lungo articolo che mette a confronto i programmi elettorali di Clinton e Trump, tema per tema.

È questa la sorpresa che cerca Trump?
C'è una storia che non arriva dalle email trafugate dagli hacker e diffuse da Wikileaks ma da un'indagine interna dell'FBI, e che ha dato qualche grattacapo alla campagna di Clinton questa settimana. Si tratta di una conversazione tra un funzionario del Dipartimento di Stato e uno dell'FBI, in cui in sostanza il primo chiedeva al secondo di modificare la classificazione di una email di Hillary Clinton, così che non risultasse essere top secret, in cambio di un rafforzamento degli staff dell'FBI in alcuni posti del mondo. Il funzionario del Dipartimento di Stato si chiama Patrick Kennedy (niente a che vedere con quei Kennedy).

È una cosa sgradevole e sospetta, e i Repubblicani ci sono saltati sopra, ma non ha raccolto grande spinta né ha avuto impatti di alcun tipo sulla campagna elettorale: tenete conto infatti che questa conversazione non ha mai coinvolto Hillary Clinton (che per quel che ne sappiamo non ne era conoscenza) e soprattutto che lo scambio proposto non è mai avvenuto. Sia il Dipartimento di Stato che la Casa Bianca e lo stesso presidente Obama hanno detto che era una conversazione inoffensiva e che non ha avuto alcun seguito. Insomma: no, non è questa la sorpresa che cerca Trump.

Il comitato Clinton ha diffuso venerdì forse lo spot più forte di tutta la campagna elettorale.

Donald Trump vuole fare una tv?
Nel frattempo si continua a discutere sottotraccia di quello che potrebbe fare Donald Trump nell'eventualità sempre più concreta di una sconfitta (tenuto conto anche che il suo business alberghiero sembra essere stato messo in grossa difficoltà dalla sua candidatura). L'ipotesi di cui si parla di più – anche perché spiegherebbe la decisione altrimenti incomprensibile di passare l'ultimo mese di campagna a parlare solo ai suoi elettori più estremisti – è la fondazione di un network televisivo di orientamento iper-conservatore. Se Fox News è considerata la tv ufficiosa del Partito Repubblicano, questa Trump TV sarebbe la tv ufficiosa della nuova estrema destra statunitense, la cosiddetta alt-right.

Quest'ipotesi è accreditata innanzitutto dal fatto che l'attuale presidente della campagna di Trump è Steven Bannon, il capo di Breitbart, il sito di news di riferimento di questa nuova estrema destra; e Trump negli scorsi mesi si è avvalso della consulenza di Roger Ailes, considerato praticamente l'inventore di Fox News, allontanato dal network quest'estate quando è venuto fuori che è un molestatore sessuale. Poi c'è anche il fatto che in occasione del terzo dibattito la pagina Facebook di Trump ha trasmesso una specie di talk show televisivo prima e dopo il confronto, una cosa strana per un candidato alla Casa Bianca. Sembra che Jared Kushner, marito di Ivanka Trump, abbia già avviato conversazioni e trattative per fondare il network.

Dopo il fallimento della sua candidatura alla Casa Bianca, oggi Marco Rubio è candidato al Senato in Florida. Questo è un momento del confronto televisivo di questa settimana contro il suo avversario. «I have a debt to this country I will never fully repay» è una frase molto bella. Rubio ci riproverà, ma chissà come sarebbe andata questa campagna elettorale se i Repubblicani avessero avuto un candidato normale.

Cosa diavolo sta succedendo nello Utah?
Un candidato minore su cui nessuno avrebbe puntato un dollaro – Evan McMullin, ex agente CIA e funzionario Goldman Sachs, senza nessuna esperienza politica – ha deciso di investire tutto il suo tempo e le sue risorse nello Utah, e sta ottenendo dei risultati. Lo Utah è uno stato abbastanza piccolo da poter essere battuto palmo a palmo senza grosse risorse per farsi conoscere (McMullin ne ha bisogno: è completamente sconosciuto, aveva 100 followers su Twitter prima di candidarsi) e soprattutto è lo stato in cui Trump è riuscito meno a convincere gli elettori Repubblicani. Inoltre McMullin è mormone, come la maggioranza assoluta degli abitanti dello Utah (e come Mitt Romney, che sapete cosa pensa di Trump). Insomma, il risultato è che McMullin nello Utah è dato oggi intorno al 25 per cento, cinque punti dietro Trump.

La sensazione è che, perché McMullin vinca, Trump debba ottenere una scoppola nazionale tale da rendere la sconfitta nello Utah ininfluente: ma comunque sarebbe una gran sorpresa, l'ennesima di questa campagna elettorale. Io e un amico – nerd di politica americana quanto me – abbiamo deciso che se McMullin vince nello Utah, andiamo nello Utah.

Il video dell'ufficio del turismo locale fa venire voglia.

Comunque, se si prova a prendere sul serio i "terzi candidati" di cui si parla di più – Gary Johnson dei Libertari e Jill Stein dei Verdi – viene fuori che sono davvero impresentabili. Il primo non ha idea di quello che propone e nessuna conoscenza o quasi della politica estera. La seconda liscia il pelo ai complottisti persino più di Trump – sui vaccini, sull'11 settembre, persino sul wi-fi! – e dice cose senza senso sui poteri del governo e della Federal Reserve. Se non credete a me, credete a John Oliver.



Per chi non ne ha abbastanza di cose americane
La Casa Bianca, la serie di mini-documentari sulle elezioni americane a cui ho collaborato, continua ad andare in onda su Raitre (e sta andando bene!). Domenica alle 22.50 andrà in onda la quarta puntata, subito dopo Che tempo che fa: alle 22 io sarò in diretta su Periscope per raccontarvi di cosa parlerà la puntata e rispondere alle vostre domande sulla campagna elettorale.

La terza puntata di La Casa Bianca.

Un po' di cose sparse, prima di salutarci

– nel tentativo di rafforzare il suo posizionamento di candidato anti-establishment, prima ancora che Repubblicano, Donald Trump questa settimana ha proposto l'introduzione di un limite ai mandati che possono ricoprire deputati e senatori. Oggi i parlamentari americani possono essere eletti tutte le volte che vogliono, finché riescono a prendere i voti.

– intanto siamo arrivati a 12 donne che accusano Trump di molestie sessuali.

– le email trafugate dagli hacker e diffuse da Wikileaks mostrano, tra le altre cose, tutti gli slogan valutati dalla campagna di Hillary Clinton prima di scegliere "Stronger Together". Alcuni sono piuttosto buffi.

– Tommy Vietor, ex funzionario della campagna di Obama ed ex portavoce del National Security Council, ha descritto con un articolo istruttivo e divertente come avviene la transizione da "comitato elettorale" a "staff della Casa Bianca" quando il candidato per cui lavori vince le elezioni.

– Dal sommario di un numero del 1989 di L'Almanacco del Mistero, albo Bonelli di "Martin Mystere": «Nella storia a fumetti, un'altra avventura per il Detective dell'Impossibile: il nostro pianeta deve fronteggiare l'invasione da parte di un'agenzia immobiliare extraterrestre. L'unico uomo sulla Terra in grado di sconfiggere questa subdola minaccia aliena sarà lo speculatore edilizio Donald Trump!». Grazie a Carlo P., che mi ha segnalato questa perla.

– Storie di presidenti che corrono: da Jimmy Carter ai due Bush.

– Probabilmente non è niente di che, ma venerdì il quartier generale nazionale del comitato Clinton – a Brooklyn, New York City – è stato evacuato dopo che è stata trovata una polvere sospetta dentro una busta arrivata per posta. La settimana scorsa, invece, qualcuno ha dato fuoco a una sede del Partito Repubblicano in North Carolina. Trump ha subito accusato i sostenitori di Clinton, senza prove. I Democratici hanno fatto una raccolta fondi per rimettere in sesto la sede danneggiata e hanno tirato su quasi 13.000 dollari.

– Vi ho già detto che ho raccontato questo mio viaggio in Iowa nella nuova puntata del podcast? Forse sì. Lo trovate qui, comunque.

Quando ci vediamo
Ci avviciniamo alle ultime tappe: con la campagna elettorale finirà anche questa specie di matto tour e tornerò più spesso a dormire nel mio letto. Ci vediamo per parlare di elezioni americane, se volete, il 27 ottobre a Milano, il 28 ottobre di mattina a Torino (ma solo se siete studenti della Scuola Holden) e poi la sera a Cuneo, il 31 ottobre a Roma (seguiranno dettagli), il 2 novembre a Torino (aperto a tutti), il 3 novembre di nuovo a Milano, il 6 novembre a Londra (seguiranno dettagli).

Noi ci sentiamo sabato prossimo. Ciao!

P. S.: No, aspettate. Lo so. Ho lasciato aperta una questione fondamentale. L'ho mangiato o no il burro fritto in Iowa? La risposta purtroppo è no. Il burro fritto lo fanno solo alla State Fair e la State Fair è in agosto. Pur di non deludervi, però, ho rimediato con questo: doppio hamburger, cheddar, cetrioli fritti, formaggio fritto, bacon fritto in pastella. Con contorno di patatine fritte due volte. Non lo dimenticherò mai.


 
Questa newsletter vi arriva grazie al contributo di Otto e della Fondazione De Gasperi.

Cose da leggere
WikiLeaks reveals the real Huma Abedin, di Annie Karni su Politico
– The Truly Forgotten Republican Voter, di John Podhoretz su Commentary
– WikiHillary for President, di Thomas L. Friedman sul New York Times

Hai una domanda?
Scrivimi a costa@ilpost.it oppure rispondi a questa email, che poi è la stessa cosa.

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Francesco Costa · Portello · Milano, Italia 20149 · Italy