La notte tra sabato 11 e domenica 12 giugno un uomo è entrato in un locale gay di Orlando, in Florida, e ha sparato. Ha ucciso 49 persone e ne ha ferite 53, alcune in modo grave. È stata la più grave sparatoria nella storia degli Stati Uniti, il più grave atto di violenza contro persone LGBT nella storia degli Stati Uniti e il più letale attentato terroristico negli Stati Uniti dall'11 settembre del 2001. L'uomo che ha sparato, un americano di origini afghane, aveva espresso più volte idee omofobe e allo stesso tempo era stato visto più volte dentro il locale della strage; aveva scritto online diversi elogi dello Stato Islamico e prima di cominciare a sparare ha telefonato al 911 per giurare fedeltà all'ISIS.
Cos'è questa storia? È una storia sulle conseguenze letali della grandissima diffusione delle armi in America? È una storia sull'intolleranza dell'estremismo islamico? È una storia sull'omofobia e la violenza contro le minoranze? È una storia sull'ISIS e la sua influenza in Occidente? La gran parte delle reazioni alla strage di Orlando – non solo quelle dei candidati alle elezioni presidenziali statunitensi ha adottato solo uno o due di questi punti di vista. A me sembra evidente che la strage di Orlando sia stata tutte queste cose insieme. La personalità disturbata di una persona, l'estrema facilità di procurarsi armi da guerra, l'estremismo islamico e più in generale l'intolleranza contro i gay predicata da certi religiosi: queste cose non si escludono a vicenda. Non bisogna scegliere. Orlando è stata tutte queste cose insieme. Le cose sono più complicate di quanto pensiamo.
Le reazioni di Hillary Clinton e Donald Trump alla strage di Orlando, comunque, non avrebbero potuto essere più diverse.
Donald Trump ha scritto su Twitter: «Quello che è successo a Orlando è solo l'inizio. I nostri leader sono deboli e buoni a nulla. Io l'ho denunciato e ho chiesto il divieto di ingresso nel paese ai musulmani. Dobbiamo essere forti. [...] Vi ringrazio per i complimenti che mi state facendo per il fatto di aver avuto ragione sul terrorismo islamico. Non voglio complimenti, voglio forza e attenzione! Dobbiamo svegliarci!». Poi Trump ha alluso a un presunto coinvolgimento del presidente Barack Obama nell'estremismo e nel terrorismo islamico.

«Sentite. O il nostro leader non è forte né intelligente, oppure ha qualcos'altro in testa. E questo qualcos'altro che ha in testa... la gente non può crederci. La gente non può credere a come si sta comportando Obama. Non riesce nemmeno a parlare di estremismo islamico. Dev'esserci qualcosa sotto. È inconcepibile».
Quando il Washington Post ha titolato un suo articolo "Trump sembra collegare il presidente Obama alla strage di Orlando", Trump ha tolto al Washington Post gli accrediti per seguire la sua campagna elettorale (cosa che Trump ha già fatto con varie altre testate). Ma le parole di Trump, per quanto allusive, erano piuttosto inequivoche: e le testate pro-Trump – come il New York Post o Breitbart – le hanno rilanciate con lo stesso punto di vista. D'altra parte Trump flirta da anni con varie teorie del complotto, e quella per cui è diventato più famoso – sul vero luogo di nascita di Obama – sostiene che Obama sia un musulmano sotto mentite spoglie.
Hillary Clinton ha detto che la strage di Orlando è stata «an act of terror» e «also an act of hate», cercando di coprire uno spettro di posizioni più ampio e complesso. Riguardo il terrorismo, ha detto che «dobbiamo essere versatili come i nostri nemici» e ha proposto un aumento di investimenti nelle attività di intelligence allo scopo di trovare i «lupi solitari» come l'attentatore di Orlando prima che agiscano: intelligence vuol dire spionaggio, vuol dire intercettazioni, vuol dire spie. Riguardo le armi, Clinton ha detto che «dobbiamo tenere armi letali come quelle lontane dalle mani dei terroristi e dei criminali», chiedendo di nuovo riforme restrittive sulla loro vendita.
Quali possono essere le conseguenze politiche
Studiosi di politica e sociologia hanno condotto negli anni molte ricerche sulla reazione dell'opinione pubblica agli attentati terroristici. Un libro del 2009 – "Democracy at Risk", di Jennifer Merolla e Elizabeth Zechmeister – sostiene che dopo un attentato l'umore dell'opinione pubblica statunitense cambia in tre modi: le persone diventano meno disposte a fidarsi degli altri; esprimono opinioni meno favorevoli verso gli immigrati; sostengono meno i diritti degli americani di origini arabe e di religione musulmana. Questa tendenza si riscontra nell'elettorato in generale, non solo nei Repubblicani, insieme al desiderio di avere al potere politici che abbiano esperienza nella gestione degli affari esteri e della sicurezza nazionale.
Negli ultimi mesi del 2015 il gradimento verso Donald Trump nei sondaggi è cresciuto sia dopo gli attentati di Parigi che dopo quello di San Bernardino in California. I dati non sono a prova di bomba – è difficile indagare precisamente la ragione per cui si muovono le opinioni degli elettori nei sondaggi – ma di certo non è successo il contrario, ecco.
I primissimi dati dicono che qualcosa del genere sta accadendo anche dopo la strage di Orlando, ma avremo più elementi per parlarne la settimana prossima. In ogni caso, Clinton non è completamente scoperta su questo fronte: è probabilmente la persona con più esperienza nella gestione della diplomazia internazionale e della sicurezza nazionale che si sia mai candidata alla presidenza degli Stati Uniti. E non solo: se la campagna elettorale contro Sanders e le nuove posizioni dell'elettorato Democratico l'hanno costretta a spostarsi a sinistra su questioni come le tasse, il salario minimo e i rapporti con le grandi multinazionali, la politica estera e la sicurezza sono forse gli unici temi su cui Clinton non si è mossa di un millimetro e su cui si può considerare più aggressiva e "falco" dello stesso Obama.
Da mesi Trump accusa Clinton e Obama di non parlare mai di «islamismo radicale». Clinton non ha pronunciato queste parole durante tutte le primarie, spiegando anzi che sarebbe stato un errore. Dopo Orlando, e dopo le primarie, le cose sono cambiate

«Per quel che mi riguarda, jihadismo radicale, islamismo radicale, vogliono dire la stessa cosa. Sono felice di usare entrambe le espressioni»
Poi ci sono le armi.
I Democratici al Senato stanno riprovando a far approvare alcune norme basilari per regolare la vendita delle armi, almeno le più pericolose, che al momento negli Stati Uniti possono essere comprate persino dalle persone che non possono salire su un aereo perché considerate potenziali terroristi. Non ci sono grandi possibilità che se ne faccia qualcosa: i Repubblicani controllano sia la Camera che il Senato, si vota tra cinque mesi e la storia recente dimostra che gli attivisti contrari alla regolamentazione delle armi sono molto più appassionati e coinvolti rispetto agli attivisti favorevoli. Però ci sono un paio di cose interessanti di cui tenere conto.
La prima: quasi la metà degli elettori del Partito Democratico bianchi e appartenenti generalmente alla "classe operaia" – cioè gli unici che Trump può tentare di far passare dalla sua parte – hanno più a cuore i diritti dei possessori di armi che il controllo delle armi. Questo argomento spiega anche le posizioni morbide del passato di Sanders sulle armi – viene da uno stato rurale abitato praticamente solo da bianchi – e anche i tentativi di Trump di sfondare in Pennsylvania e nella Rust Belt, di cui parlavamo nella seconda puntata del podcast. Lo stesso sentimento sulle armi, comunque, vale anche per i tre quarti degli elettori Repubblicani. Su questo tema Trump vince, almeno per ora.
La seconda: Trump ha detto di essere favorevole a vietare la vendita di armi alle persone tenute d'occhio dall'FBI perché potenziali terroristi. Ha detto che la settimana prossima incontrerà i rappresentanti della NRA – la potente lobby americana dei possessori di armi, che lo sostiene ufficialmente – per convincerli della bontà di quest'idea. Un'idea che, per quanto possa apparire di buon senso a noi europei, in America è comunque considerata inaccettabile da molti Repubblicani e possessori di armi (i loro argomenti: l'FBI decide arbitrariamente chi mettere in questa lista, non si può fare ricorso per esserne rimossi, potrebbe essere il primo passo verso riforme più restrittive che coinvolgano tutti i possessori di armi, un terrorista troverebbe comunque il modo di comprare un'arma). Perché Trump può dire questa cosa, apparentemente contraria a quello che pensa la sua base? Perché è Trump, innanzitutto, e ha già fatto lo stesso con gli accordi di libero scambio: entro certi limiti, discostarsi dalle storiche posizioni dei Repubblicani rafforza la sua immagine di "battitore libero". E poi perché "only Nixon could go to China".
"Nixon goes to China" è uno dei detti più popolari nella politica americana. La storia è questa: nel 1972 Nixon fu il primo presidente americano in carica a visitare la Cina, dove pochi anni prima c'era stata una rivoluzione comunista. Il viaggio fu un grosso evento mediatico e politico: la visita riuscì a normalizzare i rapporti tra i due paesi e allontanò la Cina dall’Unione Sovietica. Qualunque altro politico statunitense fosse andato in Cina a fare accordi con i comunisti sarebbe stato distrutto dall'opposizione e dall'opinione pubblica. Solo Nixon poteva, e perché aveva una solidissima reputazione di politico conservatore, molto di destra e molto anti-comunista: solo lui poteva mostrarsi cordiale con Mao Tse-tung senza rischiare di essere accusato di debolezza. Only Nixon could go to China.

Qualche altro aggiornamento:
– in attesa di capire se Orlando cambierà qualcosa, i numeri di Trump nei sondaggi sono disastrosi. Come era prevedibile, e lo avevamo detto, Clinton è risalita moltissimo dopo aver vinto le primarie e ora sul piano nazionale è data parecchi punti avanti;
– come se non bastasse, due diversi sondaggi usciti la settimana scorsa dicono che il SETTANTA per cento degli americani ha una brutta opinione di Donald Trump. E Clinton è avanti nei sondaggi in tutti gli 11 stati considerati "in bilico" alle elezioni dell'8 novembre;
– due gruppi di hacker russi, probabilmente legati al governo, hanno sottratto una serie di dati al Partito Democratico statunitense, tra cui un dossierone sugli scheletri nell'armadio di Trump che è già finito online;
– vi ricordate David French, quello che avrebbe dovuto fare l'improbabilissimo candidato dei Repubblicani anti-Trump? Ovviamente ha rinunciato. L'unico vero anti-Trump – a parte Hillary, ovviamente – si chiama Gary Johnson;
– nel frattempo è iniziata la campagna elettorale in vista delle presidenziali del 2020. E noi qui a perder tempo.
Conclusione sentimentale
Questa newsletter ha compiuto un anno il 14 giugno. Non ha mai saltato un sabato – nemmeno il 15 agosto, il 26 dicembre o il 2 gennaio – ed è arrivata per 15 volte in edizione speciale infrasettimanale, spesso dopo una notte insonne a seguire le primarie o un dibattito televisivo, per un totale di 67 newsletter inviate. Ogni invio produce decine di email di risposta, con domande, suggerimenti, opinioni, critiche, davvero mai banali. La newsletter ha messo insieme ormai più di 7.000 iscritti, a cui un certo punto ho chiesto 800 euro in sei mesi per pagare le spese, e me ne hanno mandati quasi 7.000 in una settimana. È diventata un podcast e una specie di tour che ha toccato fin qui una ventina di città. Presto diventerà un racconto delle convention di Cleveland e Philadelphia, direttamente da Cleveland e Philadelphia, anche grazie a quella raccolta fondi; e sto cercando di fare un altro viaggio negli Stati Uniti a ottobre, a ridosso del voto. Se mi avessero detto che sarebbe andata così, quando ho cominciato lo scorso 14 giugno, mi sarei messo a ridere. Grazie di cuore.
Cose da leggere
– Occupied Territory, di Ryan Lizza sul New Yorker
– «Could he actually win?», di Dave Eggers sul Guardian
– The Battleground States Project, di Politico (uno specialone sugli stati in bilico, da tenere nei preferiti)
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