La settimana appena finita è stata un'altra di quelle settimane in cui tutte o quasi le discussioni e le notizie attorno alla campagna elettorale statunitense sono girate attorno a uno solo dei due candidati (indizio: è lo stesso della settimana scorsa). E siccome le cose promettono di restare su questo registro fino all'8 novembre, è il caso che cominciamo a discutere delle conseguenze e delle implicazioni di una campagna elettorale che si muove solo su questi binari – oltre a ricapitolare e discutere queste notizie, come sempre. Se lo chiedete a me, quella banalità del "bene o male, purché se ne parli" non si applica a nessun contesto: ma è questo che sta succedendo? Donald Trump ci è o ci fa? E Hillary Clinton fa bene o fa male a lasciargli il centro della scena?
Se avete letto la newsletter della settimana scorsa, sapete che dopo le convention Donald Trump – anche grazie all'abilità dei Democratici nel tendergli un paio di trappole – ha commesso una tale quantità di errori da perdere moltissimo terreno nei sondaggi, far venire un esaurimento nervoso al suo partito e allontanare da sé porzioni rilevanti dell'elettorato, anche dai segmenti che fin qui gli erano stati più favorevoli (i maschi bianchi, per esempio, o quelli senza un titolo di studio). Per fermare la caduta libera, questa doveva essere la settimana in cui tentare di resettare tutto e fare un
reboot: e per questo era stato organizzato per lunedì un
Grande Discorso sull'Economia, a Detroit.
Come accade spesso quando si trova a leggere da un gobbo elettronico e
non dire quello che pensa, il discorso di Trump non era affatto male: poi naturalmente ognuno può essere d'accordo o no con le sue proposte, ma era un discorso da candidato Repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. C'erano anche un paio di notizie rassicuranti, per i Repubblicani: nel discorso, per esempio, Trump faceva capire di aver scartato la sua proposta sulle aliquote fiscali preferendo adottare quella dei deputati Repubblicani alla Camera. C'erano poi altre proposte per superare gli accordi internazionali di libero scambio, per tagliare le tasse alle imprese, sostenere la produttività e l'occupazione... (che noia, deve aver pensato The Donald). Qui Trump ha avuto anche un colpo di fortuna: sempre lunedì i Repubblicani hanno notato che durante un comizio di Hillary Clinton in Florida, in prima fila tra il pubblico
c'era il padre del terrorista di Orlando (che ha molto criticato le azioni di suo figlio ma ha detto anche che «l'omosessualità può essere punita solo da Dio»).
Insomma, Donald Trump ha avuto in 24 ore la possibilità di cambiare il registro di questa campagna elettorale: rimettersi al centro della scena ma con una discussione proficua sull'economia e le tasse, e attaccare la sua avversaria a partire da un incidente imbarazzante. L'ha sprecata.
Bonus
Cose che ho in comune con Donald Trump:
come mangiamo.
Il giorno dopo il Grande Discorso sull'Economia, invece di continuare a battere su questi due tasti, durante un discorso Trump ha ammonito i suoi elettori dicendo loro che se Hillary Clinton dovesse vincere le elezioni, a quel punto avrebbe il potere di nominare i giudici federali e quelli della Corte Suprema: e siccome «Hillary di fatto vuole abolire il Secondo emendamento della Costituzione», «se dovesse trovarsi nella posizione di nominare i giudici, amici, non potreste più farci niente. Anche se quelli del Secondo emendamento forse qualcosa potrebbero ancora fare, non lo so. Ma ecco cosa vorrei dirvi: sarebbe un giorno terribile. Se Hillary dovesse nominare i giudici, avremmo le mani legate. Capite cosa accadrebbe». Il Secondo emendamento della Costituzione è quello sulla libertà di avere delle armi; «quelli del Secondo emendamento» sono i possessori di armi.
Donald Trump, insomma, ha alluso in modo piuttosto evidente alla possibilità di uccidere Hillary Clinton, qualora lei dovesse vincere le elezioni.
Rendendosi contro del disastro combinato dal suo candidato – non è mai il caso di suggerire l'assassinio di un avversario politico, ecco, ma meno che mai in un posto pieno di matti e di armi come gli Stati Uniti – lo staff di Trump ha cominciato a far circolare un'acrobatica nota stampa secondo cui Trump intendeva dire che i possessori di armi e gli elettori in generale possono usare il voto per evitare che Hillary Clinton arrivi alla Casa Bianca. Ma il contesto in cui è stata pronunciata la frase è evidente: parla del momento
successivo al voto, e con tutti quei «maybe» e «I don't know» che servono a prendere le distanze da una frase violenta, e sarebbero stati superflui in un normale invito ad andare a votare. Tanto che il Secret Service – l'agenzia del governo che protegge i presidenti e candidati alla presidenza – ha fatto una cosa piuttosto irrituale:
ha detto ufficialmente di essere «a conoscenza» delle dichiarazioni di Trump e ha avuto qualche conversazione con il suo comitato elettorale.
Ma guardate la faccia dell'elettore di Trump con la maglietta rossa, nel video sotto, quando Trump dice quello che dice: lui lo ha capito di cosa si sta parlando.
In ogni caso, un bel casino: in una situazione del genere, in cui un candidato sta cercando di ribaltare il registro della campagna elettorale, non c'è dote più importante della disciplina. Quella cosa che gli americani chiamano
staying on message. Vuoi che si parli di una cosa? Insisti su quello e non dare alla stampa e ai tuoi avversari la minima opportunità di cambiare discorso. Trump è completamente privo di questa qualità, il suo comitato elettorale non è in grado di contenerlo e si sta formando un circolo vizioso: ai comizi di Trump ci sono sempre meno moderati -> Trump vuole sempre esaltare e compiacere il pubblico che ha davanti -> Trump quindi dice delle cose da fuori di testa -> ricominciare dall'inizio e ripetere.
Qualche giorno dopo, poi, Trump ha detto che Barack Obama – anzi Barack Hussein Obama, con enfasi su Hussein – è «il fondatore dell'ISIS», ripetendolo più volte (come riporta
l'attento fact-check di AP, comunque, non è vero). Qualche ora dopo un conduttore radiofonico conservatore gli ha dato l'opportunità di correggere il tiro e gli ha chiesto: signor Trump, lei ovviamente faceva riferimento al fatto che la politica estera di Obama ha creato le condizioni perché l'ISIS nascesse e prosperasse in Iraq e in Siria, no? E lui, meraviglioso, letterale: «No, intendevo proprio che Obama è il fondatore dell'ISIS» (a margine: anche se oggi dice il contrario, Trump era favorevole sia
alla guerra in Iraq che
al successivo ritiro delle truppe). Di nuovo grandi critiche e occhi sgranati persino dai Repubblicani, prima che Trump giovedì
dicesse che stava scherzando. Per essere un candidato famoso per "dire le cose come stanno", Trump negli ultimi tempi si è trovato molto spesso a dover dire «sono stato frainteso» e accusare gli altri di non averlo capito.
Ah, anche la storia del padre del terrorista di Orlando gli si è ritorta contro: durante un comizio, proprio mentre criticava Hillary per quella vicenda dicendo che «se sei in prima fila, vuol dire che hai dei rapporti col comitato elettorale», in prima fila dietro Trump
c'era Mark Foley, ex deputato Repubblicano costretto alle dimissioni dieci anni fa quando venne fuori che faceva il maiale con i minorenni.
Insomma, reboot completamente e clamorosamente fallito. È stata un'altra settimana in cui si è parlato dei disastri di Trump. Con quali conseguenze?
Bonus
A proposito: da
un'analisi approfondita dei tweet di Trump, viene fuori che quelli aggressivi e violenti sono tutti scritti da uno smartphone Android, e soprattutto in certi orari della giornata; quelli normali sono scritti invece con un iPhone. Una campagna elettorale in cui un candidato – un candidato umorale e che dice cose false in continuazione – quando è incazzato prende il telefono e si sfoga su Twitter si espone a diversi rischi, diciamo.
Primo: gli sdorsement (
il contrario di endorsement! Ma meglio se non lo usate negli Stati Uniti)
Susan Collins, senatrice Repubblicana del Maine, ha detto che non voterà Donald Trump con
un durissimo articolo pubblicato dal
Washington Post.
«Col passare del tempo, è cresciuto in me lo sgomento per questo suo flusso costante di dichiarazioni crudeli e per la sua incapacità di ammettere di aver fatto un errore e scusarsi. Quando ha cominciato a prendersela con chi non poteva rispondergli – perché non hanno il suo potere, per esempio, o perché la loro condizione professionale gli impedisce di fare dichiarazioni pubbliche – Trump si è dimostrato indegno di essere il nostro presidente»
Ma è solo la prima della lista, Collins. Lisa Murkowski, senatrice Repubblicana dell'Alaska, ha detto che non sa ancora se voterà Trump a novembre. Mark Kirk, senatore Repubblicano dell'Illinois, pensa di non votare Trump. I deputati Repubblicani Ileana Ros-Lehtinen (Florida) e Scott Rigell (Virginia) dicono che non voteranno Trump. Undici dipendenti del Partito Repubblicano si sono licenziati negli ultimi giorni, alcuni di questi perché non hanno voglia di lavorare per Trump. Nel frattempo più di 70 Repubblicani
hanno scritto una lettera per chiedere al partito di smettere di sostenere finanziariamente la candidatura di Trump. E Hillary Clinton ha diffuso una nuova lista di decine di dirigenti, funzionari ed ex parlamentari Repubblicani che intendono votare per lei.
Tutto questo in una settimana.
Secondo: le candidature alternative
Questa settimana ha annunciato la sua candidatura da Repubblicano indipendente Evan McMullin, un ex agente della CIA che ha lavorato per alcuni anni nell'ufficio politico dei Repubblicani alla Camera. Non sentitevi ignoranti se non lo avete mai sentito nominare:
nessuno lo ha mai sentito nominare. Quando è cominciata a circolare questa voce, McMullin aveva poco più di 100 followers su Twitter: probabilmente meno di ciascuno di voi. Non ha nessuna notorietà, non ha nessuna esperienza politica e – ammesso si candidi davvero – non farà in tempo a registrarsi come candidato in oltre metà degli stati. Insomma, magari se ne parlerà un pochino, ma non è niente di serio.
Il candidato alternativo da tenere d'occhio invece è
il libertario Gary Johnson, ex governatore del New Mexico, che sta raccogliendo i frutti di questo collasso della candidatura di Trump e oggi nei sondaggi è dato stabilmente tra l'8 e il 10 per cento. Se dovesse arrivare al 15 in un certo numero di sondaggi, avrebbe diritto a partecipare ai dibattiti televisivi autunnali: e quella è una cosa che potrebbe cambiare parecchio le carte. Le posizioni del Partito Libertario sono molto più vicine a quelle dei Repubblicani che a quelle dei Democratici – loro professano il minor ruolo possibile del governo in qualsiasi cosa – quindi l'ascesa di Johnson dovrebbe danneggiare soprattutto Trump, ma quando hai due candidati impopolari come Trump e Clinton non si può dare per scontato cosa accadrebbe in caso di dibattiti televisivi a tre. Ne riparleremo.
Gary Johnson è un bel tipo: se volete farvi un'idea su di lui, cominciate da questo video.
Terzo: la Corte Suprema
È una conseguenza marginale, ma se Trump dovesse continuare ad andare così male, i senatori del Partito Repubblicano comincerebbero a pensare: vale davvero la pena di continuare a fare ostruzionismo alla nomina del giudice Merrick Garland, un signore anziano e moderato? Non rischiamo di trovarci a gennaio con un giudice ben più giovane e radicale nominato da Hillary Clinton? Negli articoli dei retroscenisti politici statunitensi se ne comincia a parlare.
Quarto: i sondaggi
Che poi sono il riflesso principale del disastro di cui sopra. Hillary Clinton ha oggi in media 6 punti di vantaggio sul piano nazionale, ma sono usciti negli ultimi giorni dei sondaggi che la danno anche 10 o 15 punti sopra Donald Trump. E questo forse è il dato meno interessante tra tutti: conta di più che Clinton abbia un vantaggio consistente in Florida, Ohio, Iowa e North Carolina, e larghissimo in Pennsylvania, Colorado, New Hampshire e Virginia. Conta di più che Clinton oggi – a parte Nevada, New York e Ohio, dove comunque è in vantaggio – stia andando ovunque meglio di come andava Barack Obama quattro anni fa a questo punto. E conta di più che solo il 45 per cento degli elettori Repubblicani si dica soddisfatto del loro candidato, o che il 61 per cento degli elettori dica di aver cambiato idea in peggio sulle capacità imprenditoriali di Trump.
Cosa è successo nelle ultime due settimane.
Ma si parla solo di Trump!
I dati e i fatti di cui sopra mostrano quanto sia falso che "bene o male, purché se ne parli". Fatevi un favore, non usate un argomento così superficiale per spiegare cose complesse. Essere controversi e discussi può funzionare, se uno vuole farsi notare, ma c'è un limite oltre il quale si fanno solo danni: può far bene ai cereali X il fatto che si discuta molto del fatto che siano o no nutrienti come promettono, ma se qualcuno trova un topo morto dentro una scatola dei cereali X, se ne parlerebbe moltissimo ma i loro affari non migliorerebbero. Con Trump sta succedendo la cosa del topo morto. L'atteggiamento irriverente e fuori dagli schemi che gli aveva permesso di vincere le elezioni primarie – una campagna elettorale più semplice, con un elettorato cento volte più piccolo e omogeneo ideologicamente – sta facendo deragliare la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.
Ve la dico in un altro modo, prendendo in prestito una definizione perfetta di questa campagna elettorale che ho letto qualche giorno fa su Twitter:
Se diventa un referendum su Clinton, vince Trump.
Se diventa un referendum su Trump, vince Clinton.
Sia Clinton che Trump vogliono che diventi un referendum su Trump.
Tenetela a mente questa frase, perché davvero c'è tutto.
Abbiamo due candidati fragili e impopolari: ma mentre uno sta facendo di tutto per limitare i suoi difetti e indicare quelli del suo avversario, con grande attenzione, mestiere e disciplina, l'altro sta facendo di tutto per attirare l'attenzione del pubblico sui suoi difetti.
Mi sono convinto che c'entri anche una limitata comprensione della politica a questo livello. Donald Trump ha un istinto comunicativo efficace e spiccato: quello che lo porta a farsi vedere dai delegati della convention mentre Ted Cruz si rifiuta di sostenerlo, per esempio. Ma appunto è tutto istinto, e peraltro si tratta dello stesso tipo di istinto che gli fa dire cose inenarrabili durante i comizi per ottenere l'approvazione di un pubblico sempre più estremista. È una questione di ego smisurato, certo, ma questo vale per tutti i candidati: per pensare di te che potresti fare il presidente degli Stati Uniti, devi avere un ego smisurato. Ma il fatto che due settimane fa Trump non sia riuscito a non insultare i genitori di un soldato morto in guerra dimostra che questo istinto bidimensionale lo rende
come il cane di Pavlov, preda di riflessi condizionati, e possono essergli tese davvero un milione di trappole. Il fatto che questa settimana abbia detto quella roba su Clinton e le armi
letteralmente il giorno dopo il grande reboot della sua campagna dimostra che non riesce a pensare a un progetto che vada oltre 24 ore, né è in grado o ha voglia di ascoltare gli strateghi della sua campagna.
Video di backstage per sensibiloni della convention di Philadelphia.
Il noioso momento in cui vi dico che comunque non è finita
Questa parte ormai la sapete a memoria, ma questa settimana ci sono delle novità dal fronte che ormai preoccupa i Democratici più di Donald Trump. L'attacco informatico degli hacker russi contro il Partito Democratico è persino più ampio di quanto si pensava. Sono stati violati più di 100 indirizzi email di funzionari, parlamentari e gruppi vicini al partito: lo ha notificato alle vittime proprio l'FBI, ha scritto pochi giorni fa il
New York Times, che ha un'indagine in corso. Proprio poche ore fa sono stati pubblicati online i numeri di telefono e altre informazioni personali su quasi 200 deputati e senatori Democratici del presente e del passato. I Democratici hanno sempre più paura che nei prossimi mesi venga fuori qualcosa che faccia molto male a Hillary Clinton. Non è detto che accada: di solito chi ha informazioni grosse su qualcuno tende a farle uscire subito, per non dare il tempo agli avversari di organizzare una versione alternativa, una linea di difesa, eccetera. Ma è certamente possibile.