–213 giorni alle elezioni statunitensi
–10 giorni alle primarie di New York
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Dev'essere una di quelle caratteristiche genetiche della sinistra, no? Dopo una folle settimana di campagna elettorale tra i Repubblicani, e un risultato delle primarie in Wisconsin che aumenta le possibilità di una caotica convention estiva, i candidati Democratici non hanno voluto essere da meno e si sono scambiati gli attacchi più duri che si fossero scambiati fin qui. Il tutto a 10 giorni dalle primarie di New York.
Prima di cominciare, però, soliti ringraziamenti per i molti che continuano ad affollare le occasioni in cui parliamo di elezioni americane dal vivo, e solito promemoria sui prossimi appuntamenti: ci vediamo l'11 aprile a Milano, il 26 aprile a Torino, il 28 aprile a Verona e il 30 aprile a Mantova. Seguite i link per avere i dettagli; dove non ci sono i link vuol dire che ancora non ci sono i dettagli, e allora li troverete presto qui.
Com'è andata a finire poi in Wisconsin?
Erano le primarie di cui avevamo parlato nella scorsa newsletter, e sono finite come da pronostici: tra i Repubblicani ha vinto Ted Cruz, che ha ottenuto il 48,2 per cento, superando Donald Trump con il 35 per cento e John Kasich con il 14 per cento. I delegati erano assegnati con sistema prevalentemente maggioritario, quindi Cruz ha fatto il pienone e ha rimontato un pochino: le cifre totali dicono che Trump è avanti con 742 delegati, seguito da Cruz con 506 e Kasich con 143. Tra i Democratici invece ha vinto Bernie Sanders con il 56,4 per cento, mentre Hillary Clinton ha avuto il 43,1. I delegati però sono assegnati con sistema proporzionale, cosa che ha permesso a Sanders di rimontarne solo dieci: la conta totale dice che Clinton è avanti con 1.298 contro i 1.079 di Sanders.
Il fatto che abbiano vinto i candidati oggi in svantaggio ha spettinato la campagna elettorale: se non dal punto di vista numerico, sicuramente da quello politico.
Cos'è questa cosa?!
Clinton e Sanders se le sono date
La vittoria di Sanders in Wisconsin è stata la sua settima nelle ultime otto primarie: se questo non gli ha permesso di mettere in discussione il vantaggio di Clinton – erano soprattutto stati piccoli, o stati grandi in cui ha vinto di poco – di certo ha riaperto la questione politicamente, confermando che una parte consistente degli elettori Democratici non intende "rassegnarsi" alla sua candidatura. Le primarie passano stanotte in Wyoming, dove Sanders probabilmente otterrà un'altra vittoria, a proseguire questa tendenza: sarà quasi ininfluente dal punto di vista numerico ma gli darà altra spinta dal punto di vista politico. Il tutto mentre viaggia verso il bersaglio grosso: New York, 19 aprile.
Le primarie di New York sono la migliore e forse l'ultima possibilità per Sanders di girare la campagna elettorale a suo favore. È uno degli stati americani più popolati e influenti, è demograficamente molto variegato e soprattutto è quasi lo stato di casa di Hillary Clinton, che ha rappresentato New York in Senato per otto anni. I sondaggi lo danno in grande svantaggio ma altrettanto rapida rimonta (è passato incredibilmente in poche settimane da -20 a -10 punti percentuali) e Sanders ha deciso di giocarsi la carta che fin qui aveva tenuto in tasca: gli attacchi diretti.
Sanders ha detto per mesi di non avere intenzione di attaccare la sua avversaria, rivendicando di non aver mai fatto "una campagna elettorale negativa" nella sua vita e puntando sulla sua immagine di politico autentico e diverso dagli altri, ma dopo le critiche a Clinton sui fondi dell'industria energetica – di cui abbiamo parlato nella scorsa newsletter – questa settimana ha decisamente cambiato registro: ha accusato (ingiustamente) Clinton di essersi opposta all'accordo sul clima di Parigi ma soprattutto ha detto che non la considera «qualificata» per fare la presidente degli Stati Uniti. È andata così: Clinton ha detto che Sanders «non aveva fatto i compiti», quando le hanno chiesto di commentare un'intervista di Sanders andata piuttosto male, e poi aveva detto di non sapere se Sanders è davvero un Democratico, visto che si è iscritto al partito soltanto lo scorso novembre. Sanders ha risposto così:
«Non credo che lei sia qualificata per fare la presidente, se attraverso il suo Super PAC riceve decine di milioni di dollari dalle lobby. Non credo che sia qualificata se riceve 15 milioni di dollari da Wall Street. Non credo che sia qualificata se ha votato a favore della disastrosa guerra in Iraq. Non credo che sia qualificata se ha votato per tutti i disastrosi accordi commerciali recenti, che sono costati agli Stati Uniti milioni di posti di lavoro. Non credo che sia qualificata se ha sostenuto l'accordo commerciale con Panama, al quale io mi ero opposto»
Bùm. Ne è nata una montagna di polemiche. La campagna di Clinton ha chiesto a Sanders di ritirare la dichiarazione. Il presidente Obama, senza citarlo direttamente, ha risposto a Sanders dicendo che i Democratici devono evitare di emulare la mentalità dei Tea Party, cioè un violento scontro identitario all'interno dello stesso partito. Paul Krugman, famosissimo editorialista molto di sinistra del New York Times, ha scritto che Sanders sta iniziando a suonare come un "Bernie Bro", il nomignolo con cui ci si riferisce ai fan di Sanders più molesti, intolleranti e misogini. Molti hanno notato peraltro che, a parte il voto sulla guerra in Iraq, le stesse motivazioni citate da Sanders renderebbero «non qualificato» lo stesso Barack Obama. Il risultato è che nel giro di 24 ore Sanders ha fatto marcia indietro, e parlando in tv ha detto: «Certo che Clinton è qualificata per fare la presidente degli Stati Uniti».
Al di là di come sia andata a Sanders questa vicenda – bene o male? Io un'idea definitiva non me la sono fatta – quelli che vediamo sono gli effetti dello spostamento a sinistra dell'elettorato dei Democratici negli ultimi dieci anni. Molti di voi in questi mesi mi hanno chiesto che tipo di impatto stia avendo Sanders sulla campagna elettorale, a prescindere dall'esito delle primarie: io penso che stia avendo un grandissimo impatto, ma che quell'impatto sia a sua volta una conseguenza di questo radicale smottamento politico innescato dalla nuova generazione di elettori che Obama ha portato ad avvicinarsi alla politica per la prima volta nel 2008. Si ripete spesso il luogo comune per cui nella politica americana i partiti hanno posizioni intercambiabili, e tra Democratici e Repubblicani non ci siano grandi differenze: non è mai stato così falso.
Un'altra conseguenza di questo fenomeno: questa settimana Bill Clinton è stato contestato durante un comizio da un gruppo di elettori che lo accusano di aver reso possibile l'incarcerazione di massa di giovani neri durante la sua amministrazione con una serie di leggi molto dure sulla lotta al crimine. Bill Clinton si è difeso anche piuttosto bene, ma è un fatto che in questi anni sia Obama sia Hillary abbiano apertamente rinnegato quell'approccio e oggi propongano ricette radicalmente diverse e molto più di sinistra. I tempi sono cambiati.

Un passettino verso la "brokered convention"
Il risultato delle primarie in Wisconsin rende un briciolo più probabile la cosiddetta "brokered convention", Repubblicana, cioè la convention estiva a cui nessun candidato arriva con la maggioranza assoluta dei delegati, e quindi tutto è ancora aperto. Ci sono due forze opposte che muoveranno la campagna elettorale dei Repubblicani nelle prossime settimane: da una parte i sondaggi e gli exit poll mostrano come sempre più elettori del partito siano preoccupati dalla possibilità di una vittoria di Trump, dall'altra le primarie si spostano ora in stati che sono più favorevoli a Trump che a Cruz dal punto di vista politico e demografico.
Trump e Cruz sono evidentemente due candidati molto estremisti, molto imperfetti e con poche possibilità di convincere la maggioranza degli elettori statunitensi: la loro debolezza in questi mesi ha generato quindi centinaia di ipotesi e retroscena sulla possibilità che all'eventuale "brokered convention" arrivi un salvatore-della-patria, un leader politico che tolga di mezzo i matti delle primarie e unisca il partito attorno a una candidatura credibile. Come ha scritto il Washington Post questa settimana, però, quello scenario è davvero improbabile, per non dire impossibile: la volontà degli elettori non si può estromettere del tutto dallo scenario e tradire così clamorosamente a pochi mesi dalle elezioni. L'articolo potete leggerlo integralmente in italiano qui.
L’idea secondo cui i delegati della convention Repubblicana − persone che in linea di massima sono piuttosto conservatrici e vengono descritte a ragione come la base del partito − volterebbero le spalle ai due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti è decisamente poco plausibile, alla luce di quanto sappiamo al momento dello stato del Partito Repubblicano. [...] In un’elezione che è stata fortemente caratterizzata dall’antipatia e dalla sfiducia della base Repubblicana verso i dirigenti del partito, non sarebbe realistico pensare che la stessa base decida di arrendersi a sostenere un candidato appoggiato dalla classe dirigente, che per di più potrebbe non aver partecipato alle primarie e non essersi sottoposto al giudizio degli elettori.
L'uomo tirato in ballo più spesso nei retroscena su questa improbabilissima ipotesi è Paul Ryan, deputato del Wisconsin, già candidato vice di Mitt Romney nel 2012 e da pochi mesi speaker della Camera. Ha posizioni molto di destra ma anche molto concrete: è di fatto un nerd della politica, preparatissimo sulla policy e le riforme, e quindi molto rispettato e credibile. Lui ovviamente oggi dice di non avere nessuna intenzione di candidarsi alla presidenza, e se potesse lo scriverebbe in maiuscolo: NON HO NESSUNA INTENZIONE DI CANDIDARMI ALLA PRESIDENZA. Nessuno però gli crede fino in fondo: un po' perché l'unico modo per candidarsi in questo momento è negare di volerlo fare; un po' perché prima di diventare speaker della Camera andava in giro a dire NON HO NESSUNA INTENZIONE DI FARE LO SPEAKER DELLA CAMERA; un po' perché questa settimana il suo ufficio ha diffuso questo video. Che sembra proprio uno spot elettorale.

Correzioni
Nella newsletter della settimana scorsa ho dimenticato uno zero e ho scritto erroneamente che Bernie Sanders aveva avuto lo 0,4 per cento dei suoi finanziamenti dall'industria delle energie fossili, mentre invece è lo 0,04 per cento. Il dato era riportato correttamente nell'analisi che avevo linkato e raccontato, per fortuna, che quindi resta valida. Scusate.
Cose da leggere
– Operation Trump: Inside the most unorthodox campaign in political history, di Gabriel Sherman sul New York Magazine
– Early Missteps Seen as a Drag on Bernie Sanders’s Campaign, di Patrick Healy e yamiche Alcindorapril sul New York Times
– Trump and Sanders' common cause, di Ben White su Politico
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