Fra tre giorni si vota in quello che per i Democratici è lo stato che mette in palio più delegati dall'inizio delle primarie, e il secondo che ne mette in palio di più nell'intero calendario delle primarie; per i Repubblicani sono primarie che hanno un peso minore, ma in una situazione così precaria e incerta comunque potrebbero smuovere qualcosa; e il tutto avviene nello stato che comprende la città considerata da molti la capitale del pianeta, New York. Basta?
Cominciare così era obbligatorio.
Cos'è New York
Eh, ora arriva lui e ci spiega cos'è New York. Infatti neanche ci provo: mi limiterò a mettere in fila i fondamentali. Innanzitutto: salvo non specificato diversamente, qui parliamo dello stato di New York, che comprende la città di New York ma va anche parecchio oltre. È il quarto stato più popolato degli Stati Uniti con quasi 20 milioni di abitanti, di cui 8,5 vivono a New York City. E anche se comprende molte zone rurali, il 92 per cento della sua popolazione vive in città: la maggioranza ovviamente a New York, ma molti anche ad Albany (la capitale), Buffalo, Rochester, Yonkers, Syracuse. La città di New York è divisa a sua volta in cinque amministrazioni più piccole, i boroughs: Kings County (cioè Brooklyn), la più popolosa; Queens County (cioè il Queens); New York County (cioè Manhattan); Bronx County (cioè il Bronx) e Richmond County (cioè Staten Island, dove si arriva col leggendario traghetto arancione gratuito – oltre che con i ponti, certo).
Lo stato di New York – e la città soprattutto – è uno dei più multietnici degli Stati Uniti: nel 1940 gli abitanti bianchi erano circa il 95 per cento, oggi sono più o meno il 50. Più di un bambino su due oggi appartiene a una minoranza etnica (probabilmente presto non sarà più il caso di chiamarle minoranze, almeno da quelle parti). Ci sono tantissimi latinoamericani, è lo stato con più neri dopo la Georgia e con più persone di origine asiatica dopo la California. Ha una gigantesca industria dei media (giornali, tv, case editrici, cose di internet, showbusiness, etc), un altrettanto gigantesco settore finanziario (Wall Street vi dice niente?) e un altro enorme nel turismo, ma anche industrie di notevole sviluppo nella tecnologia. Se fosse uno stato indipendente, lo stato di New York avrebbe la dodicesima o tredicesima economia più grande del mondo. Ha un tasso di disoccupazione leggermente più alto di quello degli Stati Uniti. E vota fortissimo per i Democratici.
Dalla metà del Novecento alle presidenziali i candidati Democratici vincono nello stato di New York; nel 2012 Obama diede più di 25 punti di distacco a Romney. Gli unici posti in cui i Repubblicani vanno benino sono le contee rurali del nord (la parte che viene chiamata "Upstate New York") e Long Island. Nonostante i Democratici vincano sempre, lo stato ha un'importanza politica cruciale anche per i Repubblicani: la sola città di New York è la più importante fonte di donazioni e finanziamenti per la politica statunitense. Durante la campagna elettorale del 2012, quattro dei cinque ZIP codes (i codici di avviamento postale, in pratica) dal quale sono arrivate più donazioni ai candidati erano degli ZIP codes di Manhattan.
Di nuovo, basta? No. Perché di solito le primarie di New York non contano molto, visto che a questo punto del calendario i giochi sono già fatti, e invece quest'anno contano moltissimo. E poi perché quest'anno alcuni dei principali candidati sono di New York o hanno a New York solidissime radici. Donald Trump è di Manhattan. Bernie Sanders è di Brooklyn. Hillary Clinton ha vissuto a lungo a New York e lo stato di New York l'ha eletta per due volte al Senato.
Come funzionano le primarie
Si vota il 19 aprile, dicevamo. I Democratici mettono in palio 247 delegati assegnati con metodo proporzionale: è una primaria chiusa, quindi possono votare solo le persone che sono iscritte nelle liste elettorali come Democratiche (non i Repubblicani né gli indipendenti). I Repubblicani invece mettono in palio 95 delegati assegnati con metodo prevalentemente maggioritario, e anche la loro è una primaria chiusa.
Sul fronte dei delegati, tra i Democratici c'è Hillary Clinton avanti con 1.307 delegati (1.776 contando i superdelegati) e Bernie Sanders dietro con 1.087 delegati (1.118 contando i superdelegati). Tra i Repubblicani c'è Donald Trump avanti con 742 delegati, seguito da Ted Cruz con 529 delegati e John Kasich con 143 delegati.

Che aria tira tra i Democratici
Bernie Sanders fin qui ha ottenuto meno voti, meno delegati, meno superdelegati e meno stati di Hillary Clinton, e le primarie sono arrivate nella loro fase finale: ma ha iniziato una specie di rimonticchia, quindi sta mettendo tutto sul tavolo perché un'occasione così non gli ricapiterà. All'inizio di marzo avevo scritto cosa sarebbe dovuto succedere nei mesi successivi perché Sanders vincesse le primarie, e su aprile scrivevo questo: "Il peggio che realisticamente può succedere a Clinton è che Sanders vinca in tutti gli stati dove si tengono dei caucus, magari largamente, e in Wisconsin, uno stato che ha un vivace movimento sindacale e molti attivisti di sinistra. In ogni caso Sanders ha bisogno di ottenere molti più delegati di Clinton e ridurre il più possibile il suo attuale svantaggio. [...] Se Clinton poi dovesse perdere a New York sarebbe un colpo molto complicato da gestire per la sua campagna elettorale".
Siamo a questo punto: Sanders ha vinto in otto degli ultimi nove stati in cui si è votato, favorito dal formato dei caucus, e anche in Wisconsin. Ha rosicchiato qualche delegato a Clinton, ma il loro distacco rimane larghissimo. Ora c'è New York, che pesa molto perché: 1) assegna un botto di delegati 2) è praticamente lo stato di casa di Hillary Clinton 3) è New York. L'importanza della posta in palio ha acceso i toni della campagna elettorale dei Democratici come mai era successo fino a questo momento. La settimana scorsa Sanders aveva detto addirittura di non considerare Clinton «qualificata» per fare la presidente; una dichiarazione che poi ha ritrattato, ma senza per questo rinunciare ad attacchi quotidiani sulla guerra in Iraq, sulla Libia, su Wall Street, sulle controverse leggi anti-crimine di Bill Clinton negli anni Novanta.
Nella notte tra mercoledì e giovedì c'è stato un dibattito televisivo e sia Clinton che Sanders hanno praticamente urlato tutta la sera. Non si sono detti niente che non si fossero già detti in questi mesi, ma lo hanno fatto entrambi con un'aggressività e anche un sarcasmo che da una parte testimoniano l'importanza di questo momento, e dall'altra potrebbero creare fratture nell'elettorato dei Democratici difficili da ricomporre quando la campagna elettorale sarà finita. Dopo il dibattito Sanders è andato a Roma per partecipare a una conferenza organizzata dal Vaticano sul clima: è stato invitato regolarmente – non c'è nessun caso Marino, come sembrava a un certo punto – ma non incontrerà il Papa. Si tratta comunque di una cosa importante, perché questo Papa è popolarissimo nella sinistra americana e perché un intervento del genere potrebbe permettere a Sanders di far vedere di trovarsi a suo agio sulla scena internazionale, cosa che Clinton non ha bisogno di dimostrare. Mentre era a un oceano di distanza, alle 19 passate di un venerdì sera, Sanders ha anche diffuso una sua dichiarazione dei redditi: non contiene niente di speciale, sembra, ma hai visto mai.

I sondaggi dicono che Clinton a New York ha più di 10 punti percentuali di vantaggio, tra i 13 e i 16. Sanders era oltre 20 punti indietro fino a qualche settimana fa, poi ha rimontato parecchio e poi negli ultimi giorni è sembrato allontanarsi di nuovo. Se davvero vuole ribaltare la campagna elettorale, Sanders ha bisogno di vincere, anche di poco; una sconfitta di poco magari non cambierebbe molto sul fronte dei delegati, e questo potrebbe anche essere un risultato dignitoso visto che da qui alla fine di aprile si vota in altri stati popolosi, ma non avrebbe lo stesso impatto sulla corsa. Se invece dovesse perdere male, lo svantaggio nei confronti di Clinton – già oggi molto complicato da colmare – diventerebbe probabilmente insormontabile, anche dal punto di vista politico.
Che aria tira tra i Repubblicani
Donald Trump è in difficoltà da settimane. Quel delinquente del suo campaign manager è stato informalmente rimpiazzato da Paul Manafort, anziano consulente Repubblicano di grande esperienza (e dal passato un po' oscuro) ma gli sforzi dell'establishment per screditarlo stanno iniziando a ottenere qualche risultato: un nuovo sondaggio di questa settimana conferma quanto vi raccontavo sabato scorso e dice che solo tre americani su dieci hanno un'opinione positiva di lui. Se si va a scomporre quel dato, si scopre che pensano male di Trump la maggioranza delle donne Repubblicane, due terzi degli elettori indipendenti, tre quarti degli elettori con meno di 40 anni, l'80 per cento degli elettori di origini latinoamericane. E soprattutto: il 59 per cento dei bianchi e il 52 per cento tra i bianchi con un basso livello di istruzione, fin qui il segmento in cui è andato più forte. Trump in questo momento piace a una piccola minoranza degli americani. Molto rumorosa, molto influente nel Partito Repubblicano, ma piccola.
Inoltre, aver fondato l'intera campagna elettorale sulla sua formidabile presenza mediatica sta cominciando a mostrare i suoi lati negativi. Se avete letto la newsletter di qualche settimana fa sul funzionamento dell'eventuale "brokered convention", sapete che una parte dei delegati viene eletta dai singoli stati dopo le primarie, nelle cosiddette convention statali, dai militanti di partito. Solo che Trump pesca il grosso dei suoi consensi fuori dal Partito Repubblicano, tra i delusi della politica, e quindi a questo genere di eventi sta venendo schiantato da Cruz: in Colorado, in Indiana, in North Dakota, in Tennessee, in Louisiana, in South Dakota, in Georgia, le convention statali hanno dato a Cruz più delegati di quanti ne aveva conquistati con le primarie. Ma forse per dare l'idea della disorganizzazione della sua campagna elettorale basta dire che i suoi figli alle primarie di New York non potranno votare perché non si sono registrati in tempo.
Eppure, nonostante tutto questo, a New York salvo cataclismi Donald Trump stravincerà. Un po' perché è la sua città, e quindi uno dei posti negli Stati Uniti in cui il suo fascino sugli elettori Repubblicani può essere più forte (leggete questa storia, per esempio) e un po' – ancora – per l'inconsistenza dei suoi avversari. Ted Cruz è un bigotto religioso texano che quando vuole parlare male di qualcuno dice proprio che «ha i valori di New York»: dove vorrebbe andare? John Kasich non sta dimostrando di poter andar bene in posti che non siano l'Ohio, e l'unica cosa rilevante che ha fatto in questi giorni di campagna elettorale è stata mangiare come un matto (cosa che gli ha fatto guadagnare punti-simpatia con me, ecco, ma non lo ha portato lontano).
I sondaggi dicono che Trump ha oltre 31 punti di vantaggio su Kasich, mentre Cruz può al massimo tentare di non arrivare terzo. L'operazione dei Repubblicani che vogliono fermare Trump prima o durante la convention estiva – l'hashtag è #neverTrump, se volete curiosare su Twitter – sta già pensando ai prossimi tentativi: il 26 aprile si vota in Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island.
Il simpatico compagno di stanza di Ted Cruz al college.
I miei hamburger preferiti di New York
Premessa: a New York è difficile mangiare un hamburger cattivo, anche se entrate in un posto a caso. E provare tutti gli hamburger di New York è impossibile, quindi sicuramente me ne sarò perso di fondamentali (ogni dritta è benvenuta). E sicuramente dall'ultima volta che sono andato (ottobre 2014) ne sarà spuntato fuori qualcuno di nuovo e imprescindibile (fortunatamente ci torno tra poco). E non sono mai stato da Umami, che so essere fondamentale. Ma ecco, questi sono i miei posti preferiti tra quelli in cui ho mangiato, magari vi tornano utili quest'estate:
5. New York Beer Company
Ha il grande vantaggio di trovarsi a due passi da Times Square, in cui se fate i turisti a New York vi troverete a passare cento volte (e che a un certo punto eviterete pure, per evitare di esserne inghiottiti). Fanno un hamburger alto quanto la faccia di un bambino e con dentro degli anelli di cipolla sottilissimi e deliziosi.
4. Shake Shack
È una catena, ce ne sono diversi. È spettacolare. Gli hamburger sono piccolini, quindi è perfetto se non volete proprio ammazzarvi di cibo. Ed è buonissimo anche l’hamburger vegetariano: al posto della carne c’è il cappello di un fungo. Ovviamente fritto.
3. Island Burger & Shakes
Mai visto un menu di hamburger così ricco. Ordinarne uno solo è veramente complicato. Carne eccezionale e porzioni di patatine gigantesche.
2. P.J. Clarke
È un’istituzione vera, un bellissimo edificio di mattoni in una zona piena di grattacieli, e già questo basterebbe; ha una storia pazzesca – Jackie Kennedy ci portava i figli, Frank Sinatra ci andava a mangiare la notte – e ovviamente l’hamburger è all’altezza della situazione. Fanno anche un gran Bloody Mary, se avete il coraggio di ordinare l’accoppiata.
1. Burger Joint
È probabilmente il mio posto di hamburger preferito al mondo. Non è possibile arrivarci per caso perché è nascosto dagli occhi di tutti, anche se ormai è finito sulle guide turistiche internazionali. Per arrivarci bisogna entrare dentro un albergo di lusso, Le Parker Meridien Hotel, superare gli sguardi dei portieri elegantissimi e dirigersi verso la grande tenda rossa; poi fingendo nonchalance scostare la tenda e scoprire un posto dall'atmosfera quasi clandestina, calorosa, in penombra. Pochi tavoli, poca scelta, pochi fronzoli, tutto molto spartano: l’hamburger è perfetto ed essenziale, ma è l’intera esperienza a essere formidabile.

Appuntamenti!
Ci vediamo il 26 aprile alle 21 a Torino; il 28 aprile alle 17.30 a Verona; il 30 aprile alle 18 a Mantova; il 7 maggio alle 12 a Salerno. Ci sentiamo invece il 20 aprile con un'edizione speciale della newsletter sui risultati delle primarie di New York. Ciao!
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Scrivimi a costa@ilpost.it oppure rispondi a questa email, che poi è la stessa cosa.
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