È uscita la terza puntata del podcast sulle elezioni americane: dentro ci sono un po’ di storie su Cleveland e Philadelphia, le città che tra pochissimo ospiteranno le convention dei Repubblicani e dei Democratici, e due chiacchiere con Mattia Tarelli, un ventiseienne milanese che vive negli Stati Uniti che ha lavorato – e lavorerà ancora – come volontario alla campagna elettorale di Hillary Clinton. Il podcast si ascolta qui, se volete lasciate una recensione! Se volete evitare iTunes, invece, cliccate qui.
Per il resto è stata una settimana molto intensa, iniziata con l’attesa decisione dell’FBI sul caso delle email di Hillary Clinton, proseguita con gli omicidi senza senso di due neri da parte di due poliziotti e poi con gli altrettanto insensati omicidi di cinque poliziotti a Dallas. Andiamo in ordine cronologico.
La settimana di Hillary Clinton è andata più o meno così:
Dopo un’indagine durata mesi, l’FBI ha deciso di raccomandare al Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti di non mettere sotto inchiesta Hillary Clinton per la sua gestione della posta elettronica negli anni in cui è stata segretario di Stato (2009-2013). Se avete letto la newsletter della settimana scorsa, sapete che per evitare accuse di partigianeria politica, dopo che Bill Clinton aveva fatto una cazzata, il Dipartimento della Giustizia si era impegnato a ratificare la decisione dell’FBI senza discussioni, e così è andata. Se dal punto di vista giudiziario questo permette a Hillary Clinton di evitare una botta che sarebbe stata probabilmente letale – una candidata sotto indagine non va lontano – dal punto di vista politico questa vicenda non è finita.
Riassunto delle puntate precedenti, che gli iscritti alla newsletter di più lunga data possono anche saltare, tanto lo sanno a memoria (chi sa già scrolli fino alla prossima GIF, che mostra la vostra faccia ogni volta che in queste settimane ho rispiegato questa storia). Durante il suo mandato da segretario di Stato, Hillary Clinton ha usato un indirizzo privato di posta elettronica – sul dominio clintonmail.com, appositamente creato – anche per le cose di lavoro. Poteva farlo, in base a quanto prescrivevano le norme all’epoca. Quando però il governo le ha chiesto le email di lavoro per archiviarle – si tratta di atti pubblici – lei ha detto che la sua casella conteneva anche email personali: allora ha cancellato tutte le email personali e ha consegnato le altre. Prima dell’indagine dell’FBI, che mirava a verificare se ci fossero stati problemi per la sicurezza nazionale oppure la volontà di nascondere qualcosa al governo, non c’era modo di sapere se Clinton avesse effettivamente cancellato solo le email personali o anche le email lavorative: ci si poteva solo fidare o meno della parola di Clinton. Più precisamente, Clinton aveva consegnato 30.490 messaggi spediti o ricevuti dal suo indirizzo privato, e aveva cancellato altri 31.830 messaggi ritenuti personali. Dopo questa operazione, il server privato su cui si appoggiava l’account di posta elettronica di Clinton era stato “ripulito”: tutti i dati al suo interno erano stati cancellati.
Clinton in questi mesi aveva detto che usare il suo indirizzo privato per le cose di lavoro era stato un errore, fatto per una questione di comodità e cioè per non portarsi sempre dietro due smartphone (cosa che secondo lei sarebbe stata necessaria perché il dipartimento di Stato non le permetteva di avere indirizzi email multipli sul BlackBerry fornito dal governo). Questa motivazione però non era mai sembrata molto convincente, perché Clinton viaggia notoriamente con molte cose – lei stessa una volta ha raccontato di portarsi dietro un BlackBerry, un iPhone, un iPad e un iPad Mini – e il suo server privato era stato allestito appositamente nel 2009. Clinton inoltre aveva sempre detto di non aver inviato o ricevuto email contenenti informazioni riservate o “top secret” – il livello più alto di segretezza – dal suo indirizzo di posta, e aveva detto che il suo server era sicuro.
Dall’inchiesta dell’FBI è venuto fuori che non c'è stata nessuna intenzione criminale da parte di Hillary Clinton, che non voleva nascondere niente al governo, e che non ci sono prove certe che questa condotta abbia messo a rischio la sicurezza nazionale. Le buone notizie però finiscono qui, perché nel descrivere i risultati dell’indagine il capo dell’FBI ha demolito punto per punto la difesa di Hillary Clinton, smentendo molte delle cose che lei aveva detto su questa storia fin qui, giudicando «estremamente superficiale» la sua condotta e aggiungendo che «qualunque persona ragionevole nella sua posizione o di chi corrispondeva con lei avrebbe dovuto sapere che quell’indirizzo email non era adatto a inviare o ricevere quelle informazioni». Che non è bello, in assoluto, ma soprattutto non è bello se stai impostando l’intera tua campagna elettorale descrivendo il tuo avversario come pericoloso e inaffidabile, mentre tu saresti la persona esperta e saggia alla quale affidare la protezione del paese.

Cosa ha detto il capo dell'FBI.
Clinton aveva detto di non aver mai inviato o ricevuto informazioni riservate; l’FBI ha detto di aver trovato 110 email contenenti informazioni riservate al momento dell’invio o della ricezione (di queste, 8 conversazioni contenevano informazioni considerate “top secret”). Clinton aveva detto di non aver cancellato nessuna email di lavoro; l’FBI ha trovato tracce di diverse migliaia di email di lavoro cancellate e mai consegnate. Clinton aveva detto che il suo server era sicuro; l’FBI ha detto che è plausibile che hacker o governi stranieri abbiano avuto accesso alla sua casella di posta, anche se non ci sono prove (probabilmente perché gli hacker sono stati abbastanza bravi da non lasciarne).
Non è sorprendente che nel giro di poche ore le parole del capo dell’FBI fossero già diventate un brutale spot dei Repubblicani contro Clinton.

OUCH.
Come ha scritto il New York Times, se questa fosse una campagna elettorale normale, la candidatura di Hillary Clinton sarebbe stata affondata o quasi dalla conferenza stampa del capo dell’FBI: soprattutto per una candidata che sta puntando moltissimo sulla sua esperienza, sulla sua mano ferma e sulla sua capacità di giudizio, descrivendo il suo avversario – Donald Trump, candidato dei Repubblicani – come un personaggio istintivo, irrazionale e pericoloso.
«L’intera campagna elettorale di Clinton è costruita sulla premessa che lei ha l’esperienza nella protezione della sicurezza nazionale e la sobrietà per tenere gli americani al sicuro, mentre Donald Trump no. Clinton passa le giornate a presentarsi come una leader saggia e responsabile, e ha passato mesi a descrivere Trump come “folle”, “impreparato”, “caratterialmente inadeguato” a fare il presidente, mentre ha citato la sua esperienza al Dipartimento di Stato e al Senato come esempi della sua preparazione. In una dichiarazione durata pochi minuti, l’FBI ha messo in discussione tutta la dichiarata superiorità di Clinton in un modo più memorabile ed efficace di quanto Trump fosse riuscito a fare nell’ultimo anno»
Solo che, appunto, questa non è una campagna elettorale normale. Invece che martellare Clinton con le parole del capo dell’FBI, Trump ha innanzitutto accusato l’FBI di voler proteggere Clinton. Poi ha addirittura cambiato discorso, aiutando Clinton a far sì che i media parlassero d’altro: prima ha twittato una foto di un album di adesivi Disney (?!) riaprendo la questione sopita di un suo tweet evidentemente anti-semita; poi ha elogiato Saddam Hussein per come «ammazzava i terroristi senza pietà». Bisogna essere un bel po’ scemi. I Repubblicani del Congresso si sono messi le mani nei capelli e hanno parlato sconsolati di “auto-sabotaggio”: era il giorno che aspettavano da mesi, e il loro candidato ha permesso a Hillary Clinton di cambiare discorso.
Cosa succede adesso. La settimana prossima Trump dovrebbe annunciare il suo candidato alla vicepresidenza. Martedì Bernie Sanders dovrebbe dare ufficialmente il suo endorsement a Hillary Clinton, e anche da lei ci si aspetta a momenti l’annuncio del candidato vice. Poi ci saranno le convention. Insomma, Clinton ha preso una brutta botta che avrà delle conseguenze, ma sia Trump che le circostanze attireranno presto altrove le attenzioni dei media e le daranno la possibilità di cambiare argomento in fretta. Se l’FBI avesse detto queste cose tre o quattro mesi fa, a primarie ampiamente in corso, sarebbe stato un guaio ancora più grosso; se le avesse dette tra due mesi, all’inizio del rettilineo finale, idem. Così invece Clinton è ferita ma in piedi.
Bonus
Aggiornamento del borsino sui candidati vice e sulle convention, già che ci siamo. Per Trump i nomi che si fanno di più sono quelli di Newt Gingrich, Joni Ernst, Mike Pence, Jeff Sessions, Tom Cotton e Chris Christie. Per Clinton, i soliti: Tim Kaine, Elizabeth Warren, Sherrod Brown, Julian Castro, Tom Vilsack e Tom Perez. Il prossimo endorsement di Sanders – che ha ottenuto ampie concessioni programmatiche, l’ultima sulle tasse d’iscrizione ai college – potrebbe rasserenare un po’ il clima alla convention di Philadelphia; tra i Repubblicani invece qualcuno sta ancora inutilmente tentando di far fuori Trump.
Dallas, Texas
La notte tra giovedì e venerdì a Dallas, durante una manifestazione per i diritti dei neri, un uomo di 25 anni – un reduce di guerra, nero – si è appostato su un tetto e con un fucile da cecchino ha sparato a X poliziotti, uccidendone Y, prima di essere ucciso dalla polizia. Durante i negoziati aveva detto di voler uccidere quanti più poliziotti bianchi è possibile. La manifestazione, completamente pacifica, era stata organizzata dopo le uccisioni gratuite di due uomini neri fermati dalla polizia in Louisiana e in Minnesota, le ultime di una lunghissima serie. La sparatoria di Dallas invece è stata la più grande strage di poliziotti in America dall'11 settembre del 2001. Il tutto, peraltro, in una città la cui polizia è nota per essere particolarmente saggia e riformatrice, che ha ottenuto grandi risultati nella riduzione della violenza e il cui capo è nero.
Sapevamo già, anche prima di questa settimana, che la violenza e le armi da fuoco sono un grosso tema di questa campagna elettorale; e sapevamo già che il movimento "Black Lives Matter" – che difende i diritti dei neri dalla violenza gratuita delle forze dell'ordine – è di fatto quello che è stato "Occupy Wall Street" durante la campagna elettorale del 2012. È ancora presto per capire se i fatti di questa settimana avranno delle conseguenze politiche, molto dipende da cosa faranno i candidati, e per adesso anche Trump ha detto per una volta cose moderate e non incendiarie. Vi metto però due grafici, qui sotto, per capire almeno il contesto generale.
Qualcosa di personale
Sono molto contento di dirvi che ho vinto il Premio internazionale Spotorno nuovo giornalismo, nella categoria “Primizie”, per “il giornalismo che innova, nelle forme, negli strumenti e nel linguaggio, dando una impostazione ‘altra’ all’informazione tradizionale”. La giuria – che giuria! – ha citato direttamente questa newsletter e il podcast come ragioni per l’assegnazione del premio, e quindi oltre a ringraziare loro è il caso di ringraziare voi. Sabato prossimo parirò per gli Stati Uniti: andrò a entrambe le convention anche grazie alla vostra raccolta fondi, per un paio di settimane le newsletter e i podcast si intensificheranno. See you on the other side.
Cose da leggere
– Inside the Six Weeks Donald Trump Was a Nonstop ‘Birther’, di Ashley Parker e Steve Eder sul New York Times
– How Trump Speaks, di Byron York sul Washington Examiner
– Nate Silver is happy to be wrong, di Glenn Thrush su Politico
– Why Clinton’s choice of a running mate really matters, di Matt Bai su Yahoo!
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