106 giorni alle elezioni statunitensi
oggi inizia la convention di Philadelphia

Ciao da Philadelphia, dove tra poche ore inizierà la convention del Partito Democratico statunitense. Nei miei piani iniziali, questa edizione speciale della newsletter doveva servire a fare un punto a freddo sulla convention dei Repubblicani, raccontare un paio di cose sulla convention di Philadelphia e poi occuparmi del candidato vice di Hillary Clinton. Invece nel frattempo – bum! – si è dimessa la presidente del Partito Democratico, per una storia intricata e complessa in cui c'entra anche la Russia. In questa campagna elettorale non ci si annoia mai. Andiamo con ordine però.

Pensate un po': i terribili candidati dell'establishment – Clinton e Bush – sono quelli che hanno detto meno bugie di tutti.

"Michael Moore dice che Donald Trump vincerà! PANICO!"
È questo più o meno il tono preoccupato di una dozzina di messaggi che ho ricevuto nelle ultime ore. Si parla di un articolo pubblicato dal regista Michael Moore intitolato "Cinque ragioni per cui Trump vincerà". Ora, con tutta la sterminata quantità di cose che si possono leggere in inglese sulle elezioni americane, io vi direi innanzitutto una cosa, come regola di vita generale: non leggete Michael Moore. I suoi articoli sono faciloni, superficiali e a tratti apertamente imbroglioni – esattamente come i suoi film. Tanto che l'ultima frase dell'articolo di cui parliamo è: "la settimana prossima scriverò di come Trump può essere battuto". Ma come, caro Mike, non ci hai appena detto perentoriamente che "Trump vincerà a novembre"?

Non serve che lo dica Michael Moore, ormai nessuno sostiene più il contrario: Donald Trump può vincere le elezioni. Innanzitutto perché, in una gara a due, si può vincere anche per auto-distruzione dell'avversario: se domani Hillary Clinton tira un ceffone a un bambino in preda a un raptus, Donald Trump vince le elezioni pure stando fermo. E Trump può vincere per le cinque ragioni elencate da Moore, che sono notoriamente e da mesi i suoi punti di forza, come avete letto più volte nella newsletter: il malessere della classe operaia bianca del Midwest, le difficoltà di Clinton nel piacere personalmente agli elettori, i potenziali malumori di un pezzo di sostenitori di Sanders, la corrente mondiale che spinge da un'altra parte (Brexit, etc). Tra dire che per queste ragioni Trump può vincere, e dire che per queste ragioni Trump vincerà, c'è un abisso.

Si potrebbe fare una lista speculare elencando le ragioni per cui Clinton può vincere: è organizzata molto meglio di Trump, e l'organizzazione nelle elezioni americane conta moltissimo perché determina quanta gente sai portare fisicamente ai seggi; ha molti più soldi di Trump da spendere in spot televisivi e risorse logistiche, ed entrambe le cose contano moltissimo; i segmenti demografici più in crescita negli Stati Uniti – afroamericani e latinoamericani – semplicemente la adorano; il segmento demografico più ampio in assoluto – le donne – detesta il suo avversario in larghissima maggioranza; il partito di Trump è diviso e i partiti divisi di solito perdono. E così via. Queste sono solo alcune delle ragioni per cui Clinton può vincere. Se vi dicessi che per queste ragioni Clinton vincerà, metterei insieme qualche clic in più ma sarei un po' imbroglione, come Micheal Moore.

Tra i lati positivi di un'eventuale vittoria di Trump: quattro anni di tv così.

Come va il dopo-convention per Trump?
Il giorno dopo aver rivolto alla platea di Cleveland un lunghissimo e potente discorso – il più lungo nella storia recente delle convention – leggendo da un gobbo elettronico, Trump ha tenuto una conferenza stampa: e parlando a braccio, è tornato a essere Trump. Cosa piuttosto assurda per uno che è appena diventato il candidato del partito, ha passato un bel po' di tempo ad attaccare e irridere il suo ex avversario Ted Cruz: e poi, tra le altre cose, ha continuato a fare una cosa che aveva già accennato nel discorso con cui aveva accettato la nomination, cioè corteggiare gli elettori di Bernie Sanders.

Questo corteggiamento è proseguito con grande intensità su Twitter, dove Trump ha sfoggiato tutto il suo repertorio di «SAD!», «pathetic», molto caps lock, «TOTAL DISRESPECT!», soprattutto molto caps lock, fino ad arrivare alla più sfacciata e spericolata delle bugie:

An analysis showed that il cielo è verde.

Vale la pena però soffermarsi ancora per qualche riga su questo punto. Davvero un elettore di Bernie Sanders può votare Donald Trump a novembre? La risposta è: eccome. Poi non è sicuro che accada, anzi oggi è improbabile, ma è possibile: e per ragioni politiche anche piuttosto semplici.

Gli elettori di Sanders si possono dividere, generalizzando, in tre macro-categorie. La prima: storici elettori e militanti del Partito Democratico con idee più di sinistra degli altri. La seconda: elettori molto di sinistra esterni al Partito Democratico e che non lo hanno votato in passato, ma che lo avrebbero votato se avesse vinto Sanders; alcuni di questi pensano che Clinton sia corrotta e il partito abbia truccato le primarie. La terza: elettori lontani dalla politica e di solito disinteressati alle notizie, poco scolarizzati, che Sanders ha convinto con il suo messaggio "rivoluzionario" – per sua stessa definizione – e anti-establishment, contro le banche, contro i partiti, contro gli accordi commerciali, contro il sistema.

Gli elettori della prima categoria voteranno quasi tutti per Hillary Clinton: sono elettori del partito, hanno perso le primarie, amen, voteranno la candidata del partito. I più scettici saranno convinti dallo stesso Sanders, che si spenderà per Clinton in campagna elettorale, da Obama e dallo spauracchio-Trump. Gli elettori della seconda categoria saranno molto difficili da convincere. Non si tratta necessariamente di "voti persi" – sono elettori che non avrebbero votato comunque per i Democratici e magari non lo hanno fatto neanche nel 2012 – e per la maggior parte di loro la scelta sarà tra votare Clinton, votare la candidata dei Verdi o stare a casa. Ma altri potrebbero essere attratti da un candidato isolazionista dal punto di vista militare, protezionista e no global in economia, anti-NATO e filo-Putin, contrario come Sanders ai trattati commerciali e anche un po' complottista e misogino. Vi ricordate dei cosiddetti "Bernie Bros"? Ecco.

Gli elettori della terza categoria sono quelli per cui si combatterà davvero. In senso più generale, sono quelli che potrebbero decidere le elezioni. Ne abbiamo parlato spesso nella newsletter, io lo racconto tutte le volte che ne parlo in giro per l'Italia, i giornali statunitensi continuano ad argomentarlo: l'unica strada credibile che porta Trump alla Casa Bianca passa attraverso la sua vittoria negli stati del Midwest – Ohio, Pennsylvania, Wisconsin, Iowa – e quindi attraverso la sua capacità di conquistare i voti dei molti elettori bianchi, relativamente poveri e poco scolarizzati messi in grossa difficoltà dalla crisi economica, e quindi molto incazzati. Alcuni di questi hanno sostenuto Sanders perché volevano una "political revolution", come diceva Bernie: una rivoluzione anti-sistema. E se quello che vuoi è una rivoluzione anti-sistema, a novembre voti Trump o Clinton?

Ancora, non tutti i mali vengono per nuocere. Per esempio è tornato Jon Stewart.

La presidente del Partito Democratico si è dimessa
Questa storia comincia un mese fa, ne avevamo parlato il 18 giugno: due gruppi di hacker, molto probabilmente legati al governo russo, hanno attaccato i server del Partito Democratico statunitense e hanno rubato un sacco di roba. Nel weekend Wikileaks ha pubblicato una montagna di email del Partito Democratico statunitense, con ogni probabilità sottratte nell'attacco di giugno. Alcune di queste email mostrano che durante le primarie alcuni funzionari del Democratic National Committee parteggiavano per Hillary Clinton, e discutevano via email di come frenare l'avanzata di Sanders.

Nelle email non ci sono prove che queste persone – né il partito in quanto tale – abbiano effettivamente avuto un impatto nella campagna elettorale (a un certo punto uno suggerisce di invitare un giornalista a chiedere conto a Sanders della sua fede, visto che Sanders è probabilmente ateo ma non lo ha mai detto apertamente, preferendo parlare delle sue radici ebraiche: non risulta che quell'idea abbia avuto seguito). Si tratta comunque di discussioni gravi, inopportune e soprattutto sgradevoli, visto che sono state fatte da funzionari di partito che sarebbero dovuti rimanere neutrali attraverso i loro indirizzi di posta professionali. Tenete conto comunque che la presidente del Partito Democratico non è come un segretario di partito italiano o europeo, non è un leader politico nazionale: è un anonimo funzionario di partito di cui nessuno sa il nome, a parte gli impallinati.

Durante la campagna elettorale, per mesi Bernie Sanders e i suoi sostenitori hanno accusato il Partito Democratico e la sua presidente, la deputata Debbie Wasserman-Schultz, di parteggiare per Hillary Clinton. Queste email provano che almeno dal punto di vista ideale avevano ragione (dal punto di vista concreto, ancora, niente del processo elettorale delle primarie è stato alterato). Anche per questo motivo Sanders domenica ha detto qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di questo guaio, ma ha dimostrato di non voler piantare nessuna grana alla convention: ha detto che le cose importanti sono altre e lui intende comunque fare di tutto per sostenere Hillary Clinton e battere Donald Trump. La stessa Hillary Clinton da settimane aveva scaricato Debbie Wasserman-Schultz, che nel giro di poche ore è stata tagliata dalla lista degli speaker della convention e ha annunciato le sue dimissioni. 

Caso chiuso, quindi? No. Innanzitutto perché i sostenitori di Sanders sono giustamente arrabbiati. Sanders parlerà stasera alla convention, e non è un caso che il suo discorso sia stato calendarizzato per la prima sera: il suo endorsement a Clinton servirà a dare la linea ai suoi sostenitori per i giorni a seguire, ed evitare contestazioni. Ma poi perché questa storia degli hacker ne contiene una più grande, di cui sappiamo ancora poco, ma che è potenzialmente in grado di cambiare del tutto questa campagna elettorale.

Sceneggiatori di House of Cards, spostatevi
Ricominciamo da capo. A giugno due gruppi di hacker, che esperti di sicurezza informatica considerano con ogni probabilità riconducibili al governo russo, attaccano il Partito Democratico statunitense. Tra i file rubati non ci sono solo le email di cui sopra ma anche sondaggi riservati, documenti strategici della campagna Clinton, liste di sostenitori e finanziatori e un documento di strategia anti-Trump. Questi file vengono pubblicati online interamente da Wikileaks, compresi dati personali molto sensibili – persino numeri di passaporto e carte di credito! – perché a Wikileaks della privacy delle persone interessa un po' a giorni alterni. Il capo di Wikileaks è Julian Assange, che tra le altre cose lavora per Russia Today, televisione russa controllata dal governo e piena di propaganda pro-Putin.

Andiamo avanti. Da settimane, se non da mesi, circolano di tanto in tanto articoli che raccontano del particolare coinvolgimento e interesse del governo russo per queste elezioni presidenziali e in particolare per Donald Trump. Questo fine settimana è uscito il più letto e importante, scritto dal giornalista americano Josh Marshall, che nel giro di poche ore è arrivato ovunque: segnalato da Paul Krugman, ripreso o allargato dall'Atlantic, da Slate, eccetera. Non è un giro di complottisti né di matti, anzi. E nemmeno di gente di destra, filo-militarista o paranoica: Marshall è un giornalista molto di sinistra, Krugman non serve che vi spieghi chi è. L'articolo di Marshall, che potete leggere qui, mette in fila una serie di fatti e dice: forse dovremmo saperne di più.

I fatti sono questi. Donald Trump è notoriamente indebitato fino al collo – lui si definisce "the king of debt" – e le banche americane hanno smesso di fargli credito da tempo. Dalla fine degli anni Ottanta le sue attività sono finanziate in gran parte dalla Russia, e di recente soprattutto da imprenditori e oligarchi del giro di Putin. Uno dei suoi ultimi grandi progetti immobiliari, per cui la Trump Organization è sotto processo, è finanziato da russi e kazaki loschi e vicini a Putin. Trump è il primo candidato americano in decenni che si rifiuta di pubblicare le proprie dichiarazioni dei redditi, che aiuterebbero a fare chiarezza sulla situazione.

Andiamo avanti. Il capo della sua campagna elettorale, Paul Manafort, ha una lunga carriera di consulenze per politici filo-russi dell'Europa dell'est: l'ultimo con cui ha collaborato è Viktor Yanukovych, il famoso presidente ucraino filo-russo contro cui nel 2014 iniziarono le proteste che portarono all'attuale guerra civile. Il consulente di Trump sulla Russia si chiama Carter Page, ha grossi investimenti in Russia e solidi rapporti con Gazprom. Alla convention del Partito Repubblicano i sostenitori di Trump si sono disinteressati del tutto della scrittura del programma, che hanno messo insieme quasi completamente gli attivisti di Cruz. Solo su una cosa il giro di Trump si è impuntato: sull'ammorbidire la posizione filo-Ucraina nella guerra con la Russia. Nei giorni della convention, come è noto, Trump ha detto al New York Times che se fosse presidente e un paese della NATO venisse attaccato dalla Russia, non sarebbe affatto automatico che gli Stati Uniti interverrebbero per difenderlo. Poi ci sono gli elogi continui che Trump riserva a Putin, che sicuramente avete letto anche voi.

"Tutto questo non vuol dire che Trump è una marionetta di Putin o è direttamente pagato dalla Russia", scrive Marshall. "Ma se ci fossero indizi di legami del genere tra Trump e una qualsiasi corporation americana, suonerebbero gli allarmi in tutte le redazioni. Eppure Putin non è un CEO. È un autocrate che governa un paese straniero, ostile agli Stati Uniti e provvisto di armi nucleari. Esiste un numero non indifferente di prove a sostegno della tesi per cui Trump e Putin hanno rapporti finanziari o un'alleanza non tacita. Anche se le vostre conclusioni sono diverse, è un fatto che l'impero finanziario di Trump è in sostanza dipendente da capitali legati a Putin. Non è qualcosa che può essere snobbato o ignorato".

Questi sono i fatti. Cosa ne penso io: siamo ancora all'inizio, se ne parlerà moltissimo. E credo che i migliori giornalisti d'inchiesta americani dei migliori giornali americani – quelli tipo Spotlight, avete presente? – se ne stiano occupando.

Un video di cuccioli. Dopo questi paragrafi su Trump e Putin ne avete bisogno.

Ah, poi c'è Tim Kaine
Ecco, appunto, quella che doveva essere la notizia più importante degli ultimi giorni. Il vice di Hillary Clinton, Tim Kaine, è un esperto senatore della Virginia, già governatore dello stato e sindaco di Richmond, stimato da chiunque ci abbia avuto a che fare Repubblicani compresi (trovare qualcuno che ne parli male è difficile). Dieci anni fa veniva considerato troppo di sinistra per vincere le elezioni in Virginia, oggi i più di sinistra lo considerano troppo moderato sull'economia: ed è una cosa che dice molto su quanto sia cambiato il Partito Democratico negli anni di Obama. Parla lo spagnolo benissimo. È un maschio bianco, e i maschi bianchi sono quelli con cui Hillary fa più fatica; è soprattutto una persona normale, che nel circo di questa campagna elettorale fa una bella differenza. Le sue posizioni politiche sono praticamente quelle di Hillary. Non è un trascinatore di folle, ma nel suo primo discorso dopo la nomina, a Miami, se l'è cavata benissimo. Qualche informazione in più su di lui la trovate qui.

«Bienvenidos a todos!»

Cosa aspettarsi a Philadelphia
La scaletta completa degli interventi deve ancora essere diffusa, ma sappiamo già che stasera parleranno Bernie Sanders e Michelle Obama, martedì Bill Clinton, mercoledì Barack Obama e Joe Biden, giovedì Hillary Clinton. In mezzo ci saranno molti altri discorsi: per esempio – notizia di domenica – mercoledì quello di Michael Bloomberg. Non ci si aspettano imprevisti o proteste dentro il palazzetto dello sport (fuori invece è possibile), Hillary Clinton dovrà cercare di ripresentarsi agli americani e convincerli che può essere umanamente gradevole e politicamente affidabile. Vasto programma, diceva quello.

Noi ci sentiamo ogni giorno fino a giovedì, nel tardo pomeriggio, con il punto sulla giornata in streaming su Periscope; martedì con la quinta puntata del podcast, registrata a Philadelphia; venerdì mattina con la newsletter post-convention. Se non volete perdervi nemmeno le briciole, trovate ogni giorno altre cose sui miei account su Facebook, Twitter e Instagram. Ciao!
 
Questa newsletter vi arriva grazie al contributo di Otto e della Fondazione De Gasperi.

Cose da leggere
Five myths about political speechwriting, di Jeff Shesol sul Washington Post
– Why Trump Is Winning Over Ohio’s Blue-Collar Dems, di Jeff Greenfield su Politico
Donald Trump is a unique threat to American democracy, l'anti-endorsement del Washington Post

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Francesco Costa · Quartiere Isola · Milan, VA 20159 · Italy