Venerdì mattina, quando in Italia era pomeriggio, Donald Trump ha scritto su Twitter che di lì a poco avrebbe fatto un "importante annuncio". I media sono accorsi nel luogo indicato dal comitato – un nuovo hotel di Trump a Washington DC – e le tv hanno cominciato a discutere su cosa Trump avrebbe potuto dire o non dire, creando un'atmosfera di enfasi e attesa. Arrivati in hotel, i giornalisti hanno trovato una sala stampa allestita col materiale di propaganda della campagna; le tv –
CNN,
FOX,
MSNBC, etc – hanno cominciato a trasmettere in diretta. Prima il podio vuoto. Poi, dato che Trump non arrivava, hanno trasmesso in diretta i discorsi dei suoi sostenitori che si sono susseguiti sul palco, soprattutto ex reduci di guerra, e quelli che elogiavano la bellezza del nuovo albergo di Trump. Dopo parecchio tempo – ma parecchio – Donald Trump è arrivato e ha detto tre frasi, per la durata di 30 secondi.
«Hillary Clinton e il suo comitato elettorale nel 2008 aprirono il caso sul vero luogo di nascita di Obama: io l'ho chiuso. Il presidente Barack Obama è nato negli Stati Uniti, punto. Ora torniamo tutti a occuparci di come rendere di nuovo l'America grande e forte»
Di queste tre frasi,
la prima è una balla da complottisti (furono certi sostenitori di Clinton online a suggerire la tesi che Obama non fosse nato in America, ma non credo che Trump desideri davvero l'applicazione di questo standard); la seconda può essere una notizia solo nel delirio di certe opinioni di Trump, e capovolge quello che da anni dice e pensa; la terza è uno slogan elettorale. Eppure la promessa di questi 30 secondi ha portato tutti i network televisivi americani a garantire complessivamente quasi 90 minuti di copertura pro-Trump a reti unificate. Alla fine dello show di Trump, l'opinione che circolava di più online tra i giornalisti americani era: ci ha fregati.
È stato un momento esemplare di questa campagna elettorale.
Parentesi appuntamenti. Oggi
alle 15.15 a Spotorno racconto una piccola storia della newsletter, del perché ho iniziato a scriverla e di cosa ho imparato; nei prossimi giorni poi andrò a parlare di elezioni americane
il 20 settembre alle 18 a Parma;
il 22 settembre alle 19 a Livorno e
il 28 settembre alle 20 a Roma.
Inoltre, è uscita la decima puntata del podcast sulle elezioni americane, ed è piena di grandi storie di presidenti malati, acciaccati, feriti. Per dare un po' di contesto alla polmonite di Hillary Clinton e soprattutto ricordare qualche grande aneddoto, tipo: la volta che George H. W. Bush vomitò addosso al primo ministro del Giappone durante una cena di stato. Oppure la vicenda di William Harrison, il presidente dal mandato più breve, che prese una brutta influenza alla fine della campagna elettorale ma nonostante fosse molto malandato volle fare a tutti i costi il giuramento all'aperto e senza cappotto. Prese la polmonite – forse aveva anche il tifo – e morì dopo un mese. La puntata si ascolta
qui su iTunes o
qui su Spreaker.
Clicca play.
Sta succedendo, o forse è successo: Donald Trump ha sostanzialmente rimontato lo svantaggio che lo separava da Hillary Clinton nei sondaggi. Come sapete, i suoi numeri si stanno muovendo verso l'alto da tre settimane, e con una certa costanza: intorno alla fine della settimana scorsa quella crescita si era arrestata, tanto da far dire a esperti di dati e sondaggi che i suoi consensi
avessero raggiunto una fase di stallo.
Poi è arrivato il weekend.
Sabato, durante un discorso ai suoi sostenitori, Hillary Clinton ha detto che «la metà dei sostenitori di Trump» appartiene al cosiddetto "basket of deplorables", "la cerchia dei deplorevoli", definendoli omofobi, razzisti, xenofobi, eccetera. "Basket of deplorables" è un'espressione che aveva usato in passato senza che fosse un problema: la cosa delicata è appiccicare questa definizione alla metà dei sostenitori di Trump. In generale, una delle regole non scritte di una campagna elettorale è che si attacca il candidato e non i suoi elettori, se non ci si vuole fare male. Domenica ci sono stati il malore di Clinton a New York e
l'annuncio tardivo sulla sua polmonite. Risultato: quando Trump sembrava essersi fermato, ha ricominciato a crescere.
Nella media nazionale, il vantaggio di Clinton si è ridotto a 1,5 punti percentuali: e le rilevazioni più recenti vedono tutte avanti Trump, anche se di poco. È un dato coerente con quello che sta succedendo nei singoli stati, che come sapete sono la cosa più importante da tenere d'occhio: Trump è dato avanti di 4,3 punti in Iowa e di 1 punto in Ohio, e praticamente pari in Florida, Nevada e North Carolina. Clinton ha ancora un buon vantaggio in Pennsylvania, New Hampshire, Michigan, Virginia, Colorado e Wisconsin, ma anche lì ha perso terreno. Trump ha azzerato lo svantaggio accumulato dopo le convention: la distribuzione degli elettori nel paese e il peso dei singoli stati continua a favorire leggermente Clinton, ma dal punto di vista dei consensi oggi di fatto i due sono pari.
A nove giorni dal primo di quattro dibattiti televisivi, questa storia dimostra quanto in fretta possono ancora cambiare le cose in campagna elettorale. Tre cose allora andranno tenute d'occhio nei prossimi giorni, per aiutarci a capire da che parte andremo:
– Completata la rimonta, che Trump vedremo?
Ci sono ragioni per pensare che la nuova gestione della campagna elettorale di Trump stia funzionando e quindi vedremo nelle prossime settimane meno dichiarazioni roboanti, meno inciampi e più tentativi furbi di usare i media come quello di venerdì. Ma un candidato alla pari o addirittura in testa ai sondaggi fa una campagna molto diversa rispetto a uno in svantaggio, e affronta i dibattiti in modo differente. Trump in questi momenti è sempre sembrato più spavaldo del normale: i guai peggiori li ha fatto quando era avanti. Stanotte per esempio, parlando senza gobbo elettronico, ha di nuovo alluso alla morte di Hillary Clinton suggerendo che la sua scorta dovrebbe girare disarmata, dato che lei vuole limitare l'accesso alle armi, «così vediamo che succede». E l'ammissione sul luogo di nascita di Obama potrebbe essere stata azzardata: riporta le attenzioni su di lui e su una delle cose più folli che abbia sostenuto fino all'altroieri.
– Hillary Clinton riprenderà il filo?
Nei giorni immediatamente precedenti al malore di New York, sulla stampa americana erano usciti diversi articoli secondo cui Hillary Clinton stava per correggere qualcosa nella sua comunicazione, e con due o tre ambiziosi discorsi avrebbe cercato di piacere un po' di più agli americani, di raccontare meglio sé stessa e le sue idee, di spiegare agli americani che non devono votarla solo se o perché disprezzano Donald Trump. La polmonite ha fatto deragliare questi piani e si è mangiata quasi una settimana, che a questo punto è moltissimo, e c'è un dibattito che incombe. Clinton è tornata a fare campagna elettorale e sembra in forma, ma vai a sapere. Di certo la sua campagna ha bisogno di una scossa: per il momento le sono venuti in soccorso Joe Biden e Michelle Obama, che hanno fatto campagna per lei, e presto arriverà anche il presidente.
Il comizio di Michelle Obama stanotte in Virginia.
– Le tv cambieranno tono?
La campagna elettorale ha inevitabilmente una grossa componente di quella che gli americani chiamano "horse race", la corsa dei cavalli: chi è avanti, chi è indietro, chi sta rallentando, chi accelera. La gran parte degli elettori, soprattutto quelli che hanno già deciso con chi stare, è interessata soprattutto a questo aspetto; e d'altra parte leggere i sondaggi è più divertente e apparentemente facile che confrontare le proposte sulle aliquote fiscali. Una conseguenza di questo meccanismo è che una campagna elettorale con un candidato nettamente favorito attira poco interesse: si sa già chi vince. E quindi una parte consistente dei media statunitensi – soprattutto le tv – tende in modo più o meno automatico a dare una piccola mano al candidato in svantaggio, a descriverlo meno in svantaggio di quanto non sia, a strombazzare il risultato di anche un solo singolo sondaggio pur di descrivere finalmente una competizione accesa e combattuta, che porta pubblico e copie vendute e diventa la più classica delle profezie autoavveranti. Ora che Trump ha rimontato, le tv cambieranno qualcosa nel loro atteggiamento? E lo spettacolino di venerdì, che ha irritato moltissimi addetti ai lavori, avrà delle conseguenze?
Vi lascio con queste tre domande aperte, due video e tre piccoli aggiornamenti.
Primo: ricordate la storia della procuratrice della Florida che sollecitò e ricevette una donazione elettorale da Trump poco dopo aver deciso di non indagare per truffa la Trump University?
Ne parlavamo la settimana scorsa.
Ora la procura di New York ha aperto un'inchiesta.
Perché in America il blu è il colore dei Democratici e il rosso dei Repubblicani? Non è sempre stato così.
Secondo: Gary Johnson dei Libertari e Jill Stein dei Verdi
non hanno raggiunto la soglia nei sondaggi richiesta per partecipare al primo confronto tv e al confronto tra i candidati vice. Johnson, che è quello messo meglio dei due, si è fermato intorno all'8 per cento: serviva il 15. Una nuova valutazione sarà fatta più avanti in vista degli ultimi due confronti tv (se volete capire meglio chi sono Johnson e Stein,
ascoltate qui).
Terzo: il tasso di popolarità di Barack Obama continua a crescere –
ora pare addirittura intorno al 58 per cento, 14 punti in più rispetto a due anni fa – e questo di solito aiuta un pochino il partito del presidente uscente. Inoltre, questa settimana il Census Bureau (più o meno la nostra ISTAT)
ha diffuso una serie annuale di dati confortanti sull'economia statunitense: nel 2015 c'è stato il più alto aumento di reddito per la classe media in cinquant'anni; 3,5 milioni di americani in meno dell'anno scorso vivono in povertà, il calo più rapido dagli anni Sessanta; 4 milioni di americani in più hanno copertura sanitaria, il tasso di disoccupazione è sceso al 4,9 per cento (la metà rispetto a sette anni fa).
Per finire
Non c'entra niente, e sicuramente lo conoscete benissimo, ma mi è capitato di parlarne con un amico nel fine settimana e mi è passato davanti per caso nei giorni scorsi, e ne sono rimasto di nuovo ipnotizzato. Questo è John Fitzgerald Kennedy che dice: sapete che c'è, andremo sulla Luna.
«But why, some say, the moon? Why choose this as our goal? And they may well ask: why climb the highest mountain? Why, 35 years ago, fly the Atlantic? Why does Rice play Texas?
We choose to go to the moon. We choose to go to the moon in this decade and do the other things: not because they are easy, but because they are hard. Because that goal will serve to organize and measure the best of our energies and skills, because that challenge is one that we are willing to accept, one we are unwilling to postpone, and one which we intend to win, and the others, too».
Ci sentiamo sabato prossimo con la guida al primo confronto tv. Ciao!