Ci sono molti modi per accorgersi dell'inesorabile trascorrere del tempo e dell'invecchiamento. Uno, per esempio, è accorgersi che nell'edizione speciale della newsletter che ho mandato mercoledì mattina, dopo aver dormito poco per seguire le importanti primarie di New York vinte da Clinton e Trump, ho cannato l'intestazione: fra tre giorni non si vota in Montana, New Jersey e New Mexico, come avevo scritto, bensì in Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island. Un altro modo è compiere gli anni: a me è capitato proprio il giorno dopo l'invio di quella newsletter con l'intestazione sbagliata e quindi ho messo in relazione le due cose: mi rincretinisco. Un altro modo ancora è ricordarsi che quando abbiamo cominciato a sentirci con questa newsletter – sembra ieri! come si è fatta grande! – il numerino lì in alto diceva che mancavano 513 giorni alle elezioni statunitensi, e oggi dice che ne mancano 199.
E intanto, nonostante questo, siamo ancora qui con le primarie: ma stanno finendo, e tutti i candidati per motivi diversi stanno già guardando a quello che faranno dopo. Oggi cerchiamo di fare un po' il punto della situazione. Prima di cominciare, solito promemoria con gli appuntamenti: se volete, ci vediamo il 26 aprile alle 21 a Torino (ma arrivate presto, l'evento su Facebook ha numeri spaventosi); il 28 aprile alle 17.30 a Verona; il 30 aprile alle 18 a Mantova; il 7 maggio alle 12 a Salerno. I dettagli sugli incontri li trovate cliccando sui link.
Quanto manca alla fine delle primarie
Le primarie di entrambi i partiti finiscono il 7 giugno. Di fatto però, da qui ad allora, le date davvero importanti saranno poche. La prima è per l'appunto il 26 aprile, quando si vota in Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania and Rhode Island. Sono primarie che mettono in ballo 384 delegati per i Democratici (sono tutti stati storicamente molto Democratici, e quindi pesano molto nelle loro primarie) e 172 per i Repubblicani.
A maggio il calendario si farà un po' più intenso, ma in stati che contano poco: in tutto ci sono in palio solo 235 delegati per i Democratici e 199 per i Repubblicani. I risultati in questi stati serviranno quindi più a costruire "momentum" – entusiasmo, fiducia, spinta, attenzione positiva dai media e finanziamenti – che a smuovere davvero l'equilibrio della corsa: e le primarie di New York hanno mostrato che il "momentum" da solo non sempre produce risultati. Dopo maggio le primarie finiscono col bersaglio grosso, quello del 7 giugno, l'ultimo giorno: si vota in California, Montana, New Jersey, New Mexico, North Dakota e South Dakota (qualcuno in meno per i Repubblicani). I Democratici in totale mettono in palio 649 delegati, di cui 475 in California. Per i Repubblicani i delegati in palio il 7 giugno saranno 303.
C'è un motivo preciso per cui si assegnano così tanti delegati nell'ultimo giorno di primarie (addirittura molti di più che in tutto il mese di maggio). I precedenti storici dicono che, da quando le primarie funzionano come oggi, si arriva sempre all'ultimo giorno con un candidato che ha già evidentemente vinto, e a volte è rimasto persino l'unico in ballo. I molti delegati in palio l'ultimo giorno sono quindi una specie di "premio di maggioranza": un modo per rafforzare la delegazione della convention del candidato che ha già evidentemente vinto le primarie.
Quest'anno tutti i candidati dicono che non intendono ritirarsi e che arriveranno fino alla fine delle primarie. Anche quelli che già oggi non hanno possibilità di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati. Cerchiamo di capire perché, partendo dal voto di martedì 26.
Dove si vota
Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania e Rhode Island si trovano tutti nella parte nordorientale degli Stati Uniti. Hanno in totale 24 milioni di abitanti, di cui più o meno 13 nella sola Pennsylvania. In tutti questi stati il tasso di disoccupazione è pari o al di sotto della media statunitense. Dal punto di vista demografico sono abbastanza nella media: non sono quasi esclusivamente abitati da bianchi come certi stati del New England ma non hanno nemmeno le grandi comunità afroamericane o latinoamericane di certi stati del sud. Ci sono posti dove le minoranze etniche contano parecchio, comunque: in Pennsylvania c'è Philadelphia, per esempio, quinta città più popolosa degli Stati Uniti, oltre il 30 per cento di abitanti neri; in Maryland c'è Baltimora, che ha oltre il 60 per cento di abitanti neri.
«Thin line between heaven and here»
Che aria tira tra i Democratici
Dopo settimane di fibrillazioni, la vittoria di Hillary Clinton a New York sembra aver stabilizzato la corsa. La piccola rimonta che Sanders aveva iniziato nei caucus di aprile si è fermata nello stato più importante, e dall'analisi del voto sono emersi altri dati confortanti per Clinton: ha vinto in tutti i segmenti demografici a parte quello dei maschi bianchi, ha vinto tra gli elettori che si definiscono Democratici (Sanders invece va forte con quelli che si definiscono indipendenti), ha vinto nonostante l'affluenza altissima (Sanders dice sempre che lui va bene quando l'affluenza è alta), ha vinto nonostante Sanders avesse raccolto e speso più soldi di lei, ha vinto nonostante non si votasse in uno stato del sud (Sanders dice sempre che Clinton ha costruito il suo vantaggio negli stati del sud, anzi, del «profondo sud», piegando un po' la realtà).

A fare un po' di conti, ha scritto Associated Press, Clinton potrebbe perdere tutte le primarie ancora in ballo – di poco, naturalmente – e comunque ottenere la nomination. E questa cosa, comunque, non dovrebbe accadere: in questo momento Clinton è avanti nei sondaggi in tutti gli stati in cui si vota martedì 26 (tranne il Rhode Island, su cui non ci sono dati) e il formato delle "primarie chiuse" dovrebbe favorirla: sono primarie a cui possono votare solo le persone registrate alle liste elettorali come Democratiche.
In questi giorni la conversazione degli addetti ai lavori si è spostata quindi su due questioni laterali e relative al dopo. Sanders ha detto più volte che intende arrivare comunque fino alla convention senza ritirarsi, e l'enorme quantità di denaro che ha raccolto in questi mesi glielo permette: ma i collaboratori di Clinton sperano almeno che abbassi i toni degli attacchi e delle critiche. Clinton è uscita trasformata da queste primarie contro Sanders: da una parte si è spostata ulteriormente a sinistra su alcune questioni, dall'altra ha visto i suoi indici di popolarità scendere anche tra i Democratici. Gli attacchi di Sanders le hanno fatto male. Dopo la fine delle primarie Obama le darà una mano a conquistare i cuori dei Democratici che fin qui non l'hanno sostenuta: ma i clintoniani si aspettano che Sanders faccia lo stesso.
Si arriva così alla seconda questione. Sanders metterà a disposizione di Clinton e del Partito Democratico il suo tesoro, cioè l'indirizzario dei suoi militanti e attivisti che si sono dati così da fare in questi mesi? È una lista che contiene più di cinque milioni di indirizzi email e, di questi, oltre due milioni appartengono a persone che hanno donato dei soldi a Sanders; peraltro molte di queste persone sono giovani e non sono storici elettori del partito. Insomma questo indirizzario è una specie di miniera d'oro. Al momento lo scenario più probabile è che Sanders dopo la convention si tenga l'indirizzario ma che lo usi di tanto in tanto per sollecitare donazioni e sostegno per Hillary Clinton. Ma al di là delle scaramucce di questi mesi i due non sembra si stiano simpaticissimi, quindi io non darei niente per scontato.
Michelle Obama ha detto: «I will not run for president», spezzando i cuori di milioni di giornalisti.
Che aria tira tra i Repubblicani
Da settimane John Kasich è rimasto in corsa nonostante non avesse matematicamente la possibilità di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati prima della convention. Dopo le primarie di New York, la stessa cosa vale per Ted Cruz. A questo punto, quindi, i potenziali scenari per il finale delle primarie del Partito Repubblicano si riducono: l'unico candidato che può arrivare alla maggioranza assoluta dei delegati prima della convention è Donald Trump. In un altro anno, questo lo avrebbe già reso il vincitore. Quest'anno però le cose sono diverse: un pezzo sostanziosissimo del partito vuole ostacolare Trump quasi a tutti i costi, il passo che Trump ha tenuto fin qui rende possibile – per quanto improbabile – che arrivi alla convention di Cleveland con soltanto una maggioranza relativa. E questo è l'unico scenario che tiene ancora in piedi le candidature di Cruz e Kasich.
Se Trump dovesse arrivare alla convention senza maggioranza assoluta, dopo il primo scrutinio i delegati diventerebbero progressivamente liberi di votare chi vogliono, e quindi si aprirebbe una complessa fase di trattative e negoziati. In teoria i delegati potrebbero anche decidere di votare per qualcuno che non si è candidato alle primarie – almeno finché le regole, che possono essere cambiate in corsa, restano come adesso – ma è uno scenario improbabile: i delegati che dovranno prendere questa decisione saranno arrivati a Cleveland in quanto sostenitori di Cruz e Trump; quelli che volevano un candidato moderato hanno perso le primarie e la convention la guarderanno da casa.
I sondaggi dicono che il 26 aprile Trump dovrebbe vincere ovunque o quasi, e infatti gli anti-Trump stanno concentrando le loro forze e risorse sulla Pennsylvania, dove un sistema elettorale assurdo fa sì che solo 17 delegati siano scelti sulla base dei voti per Trump, Cruz e Kasich, e gli altri 54 siano invece eletti senza nessuna affiliazione, e quindi liberi di votare da subito per chi vorranno alla convention, e poi sull'Indiana, dove si vota il 3 maggio e Trump sembra vulnerabile. Ma stanno andando in ordine sparso, e con sempre meno fiducia, e con finanziamenti sempre meno corposi. Qualcuno si è rassegnato.
Non è una frase di circostanza: le cose possono ancora cambiare. Lo scenario Clinton vs Trump a novembre, però, non è mai sembrato così concreto e vicino come negli ultimi giorni.
Melania Trump ha soprattutto un consiglio da dare a suo marito: stai alla larga dai retweet.
Cose da leggere
– Trump's real magic number is less than 1,237, di Eli Stokols su Politico
– How Paul Manafort Took Over the Trump Campaign, di Gabriel Sherman sul New York Magazine
– After New York comes the question: What does Bernie want?, di John Wagner e Dan Balz sul Washington Post
Hai una domanda?
Scrivimi a costa@ilpost.it oppure rispondi a questa email, che poi è la stessa cosa.
Spread the word
Se quello che hai letto ti è piaciuto, consiglia a un amico di iscriversi alla newsletter oppure inoltragliela.
|